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Hannah Arendt e la banalità del male

nel film di Margarethe Von Trotta

La locandina del film

La locandina del film

Martedì 28 gennaio 2014
Cinema Palestrina, Via G.P. da Palestrina 7 - Milano


Proiezione del film Hannah Arendt, di Margarethe Von Trotta
Introduzione di Sante Maletta, Docente di Filosofia politica, Università della Calabria

Ore 09,30 e ore 11,30: proiezione per le scuole
Ore 17,00 e ore 21,00: proiezione per il pubblico


Finalmente esce anche in Italia l’ultimo film di Margarethe von Trotta, dedicato alla vita della grande filosofa tedesca Hannah Arendt. È l’occasione per riflettere su una delle figure intellettuali più interessanti della seconda metà del Novecento a partire dalla rovente polemica che la vide protagonista a partire dal suo libro Eichmann a Gerusalemme: la banalità del male (1963). Esito del reportage che la filosofa di origine ebraica fece del processo ad Adolf Eichmann (1961-2), l’ufficiale delle SS che fu responsabile del trasporto di centinaia di migliaia di ebrei europei verso i campi di sterminio, quest’opera (e il film che da essa prende lo spunto principale) contiene domande che ancora ci inquietano.

C’è innanzitutto una domanda esplicita: come fu possibile la Shoah? Che cosa caratterizzava coloro che l’hanno progettata ed eseguita? Perché così tanti hanno collaborato a diverso livello? Ebbene, la risposta di Arendt fu in qualche modo paradossale, se non scandalosa. La Shoah (e il terrore totalitario, di cui essa non è che l’espressione più evidente) fu resa possibile dalla diffusione a livello di massa della condizione di ‘assenza di pensiero’, paradigmaticamente esemplificata secondo la filosofa proprio da Eichmann. Eichmann non è un mostro del male, ma un individuo che ha rinunciato a pensare da sé e si è consegnato alla camicia di forza dell’ideologia.

C’è poi una domanda implicita, che sorge alla fine del reportage e a cui purtroppo il film non può prestare ascolto. Cosa spinse coloro che si opposero al terrore totalitario? A tale questione la Arendt dedicò una parte delle sue energie nel decennio che precede la sua morte (1975). La risposta è che, a differenza di Eichmann, costoro non rinunciarono a pensare da sé. Il pensiero è per Arendt molto di più che un processo logico. Esso è anzitutto sensibilità verso le cose e le persone, immaginazione, ricordo, capacità di condividere il punto di vista altrui.

In tal modo Arendt — forse non del tutto consapevolmente — ha aperto la strada alla più proficua indagine sul mistero dei Giusti. I quali (oggi lo sappiamo grazie anche all’opera di Gariwo) sono molti di più di quanti Arendt potesse immaginarsi. Le loro azioni, di cui cerchiamo di salvare la memoria, sono scaturite dalla profondità del loro animo.

Proprio a tale profondità la Arendt si riferisce con la sua tesi della banalità del male. Il male è banale perché non è profondo. Esso è capace di diffondersi superficialmente e assai velocemente (e quindi è pericoloso) ma non ha radici. Solo il bene può essere radicale.

A noi oggi il compito di capire come scongiurare il pericolo che le radici dei nostri animi si inaridiscano e cedano alle seduzioni delle nuove ideologie che, in modo sempre più subdolo, colonizzano il nostro spirito.

27 gennaio 2014

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