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Vent’anni fa, il Ruanda

un medico di fronte al genocidio

Vent’anni fa, il Ruanda. Sono arrivato a Byumba, nel Nord, nella zona occupata da tempo dallo FPR, l’8 giugno del 1994, con Medici Senza Frontiere del Belgio. Ero rientrato in Italia dal Ciad una decina di giorni prima: del Ruanda si sapeva ancora abbastanza poco, se non che fosse una carneficina. Fui il primo medico ad arrivare a Nyamata, con la nostra piccola equipe (io, un’infermiera, un logista), subito dopo il “pool d’urgenza”. Il viaggio da Byumba a Nyamata, lungo e accidentato per la necessità di evitare Kigali, dove c’erano ancora i combattimenti, ci aveva mostrato un Paese deserto, devastato. Nyamata era una cittadina stranamente calma: i sopravvissuti, in gran parte profughi che erano riusciti a fuggire nella zona  protetta dal Fronte Patriottico Ruandese, si erano sistemati nelle case lasciate vuote da chi era stato ucciso o aveva cercato scampo nelle paludi. Nella scuola si erano raccolti una quarantina di pazienti, in gran parte tagli da machete, amputazioni, ferite al capo, al volto. Non erano militari, ma donne, ragazzini. Dal punto di vista dell’assistenza la separazione tra FPR e civili era totale: noi avevamo il cibo del PAM, i farmaci di MSF, non ci chiesero né presero mai nulla, né ci dettero qualcosa, se non protezione (anche armata). All’inizio alloggiavamo nell’orfanotrofio, che ospitava 120 bambini, due suore ruandesi e tantissime giovani volontarie arrivate dal Burundi, che mi aiutavano in “ospedale”.  Poi ci trasferimmo nelle case abbandonate dalle suore svizzere. Nel frattempo eravamo riusciti a guardarci intorno, a visitare alcuni villaggi dove si erano raccolti altri sopravvissuti, a portare acqua e medicine, scavare latrine. Dietro casa nostra c’era la maternità, stanze piene di sangue…le persone si erano raggruppate li cercando protezione, per poi essere massacrate dopo poco.

La stessa cosa nella grande chiesa di Nyamata, deserta, i fori delle granate nel tetto di lamiera ondulata, il sangue sui muri. Lì furono sterminati diecimila innocenti. Nella piazza principale i resti di un falò; in mezzo, una cassaforte sventrata. Tutt’intorno, le fosse comuni. Gli unici abitanti originari di quella città fantasma erano i feriti in ospedale: ogni giorno, quando arrivava qualche sopravvissuto esausto, dissenterico, emerso come un revenant dalle paludi, era tutto un chiedere di quale collina fosse, di chi conoscesse la sorte… Chi era in grado di farlo lavorava con noi: il professore del Liceo di Butare che gestiva i magazzini, i componenti della gloriosa “brigade de l’eau” che distribuiva acqua con mezzi improbabili, Caritas e Immaculée in casa, Liberata in “ufficio”. Decine e decine di persone a cui veniva restituita un po’ di dignità.

Poi ci fu la beffa dell’Opération Turquoise, il tragico esodo forzato dei sopravvissuti dall’Ovest verso di noi, la fine della battaglia di Kigali, l’arrivo in massa delle ONG, gli orfani, i primi accenni di ricostruzione.

Ho avuto la consapevolezza del genocidio quando ho visto chi erano i feriti in ospedale, e come erano stati feriti: braccati come animali, considerati non più come esseri umani. Le dimensioni le ho capite quando mi sono reso conto che Nyamata non esisteva più nella sua popolazione originaria. Lì il genocidio dei Tutsi si è compiuto, per sempre. Forse non sotto gli occhi del mondo, ma sicuramente con la consapevolezza e le complicità di molti. Già allora si sapeva che la Francia continuava a fornire armi ai genocidari, che l’Operation Turquoise era una mistificazione, che l’esplosione dell’aereo presidenziale era un pretesto per scatenare un piano preparato con cura; che le vittime, soprattutto, erano inermi – non soldati, ribelli o terroristi, ma persone con scritto “tutsi” sulla carta d’identità. Andando verso Butare in “missione esplorativa” ho visto il cadavere di una contadina riverso sulla strada: un pagne, una camicetta, le scarpe di plastica. I bossoli dei proiettili che l’avevano uccisa erano a due metri di distanza a malapena.

Quando oggi sento vecchie e nuove negazioni, i distinguo, il rifiuto delle responsabilità personali e storiche, penso che non si voglia imparare veramente niente, che l’ideologia genocidaria covi sempre sotto la cenere. E non facciamoci ingannare dal fatto che il Ruanda sia lontano, e che si possa praticare una politica in Africa e un’altra in Francia. Non è così, la storia recente ce lo insegna.

Gaddo Flego, medico, presente a Nyamata nel giugno 1994

Analisi di

18 aprile 2014

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