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Una vita da dissidente

di Win Tin e Sophie Malibeaux O barra O edizioni

“Il mio capo sanguina, ma non si china” (“My head is bloody, but unbowed”) il verso tratto dalla poesia “Invictus” del poeta inglese William Ernest Henley, è la citazione che ha accompagnato Win Tin, intellettuale birmano, giornalista e attivista politico, nei 19 anni di prigionia dopo la condanna nel 1989 per l’impegno a favore della libertà e della democrazia contro la giunta militare al potere in Birmania dal 1962.
Una frase che lo ha aiutato a sopportare le dure condizioni del carcere di Insein, lunghi anni di isolamento, maltrattamenti e torture, come ha raccontato egli stesso nel libro “Una vita da dissidente”, scritto assieme a Sophie Malibeaux, uscito in Francia nel 2009, tradotto e pubblicato in Italia nel 2011 a cura di O barra O edizioni e tornato ora d’attualità dopo la recente scomparsa del protagonista. La stretta sorveglianza a cui era sottoposto, lo ha costretto a ricorrere a espedienti e alla mediazione di altre persone per trasmettere questa sua testimonianza.

Win Tin si è spento il 21 aprile scorso, a Rangoon, all’età di 84 anni, mentre era ricoverato in ospedale per problemi respiratori. La sua salute era stata minata dagli anni della carcerazione, finita il 23 settembre del 2008 grazie a un’amnistia, dopo alcune finte scarcerazioni (una forma di “tortura psicologica” usata nei confronti dei prigionieri politici). Anche al momento della liberazione Win Tin aveva mostrato la sua straordinaria forza morale, rifiutando di firmare la rinuncia a svolgere attività politica e ottenendo di essere rilasciato senza condizioni.

Uomo politico e giornalista, Win Tin aveva fondato la Lega nazionale per la democrazia (National League for Democracy – NLD), il partito storico di opposizione ai militari,  nel settembre del 1988 assieme a Aung San Suu Kyi, la figlia del generale Aung San, il padre fondatore della nazione birmana che tra il 1942 e il 1945 aveva guidato la battaglia per l’indipendenza del paese dalla dominazione coloniale britannica prima e dall’occupazione giapponese dopo.

Nel libro Win Tin rievoca l’incontro con il generale Aung San nel 1945 come un punto di svolta nella sua vita: alla richiesta del ragazzo di unirsi all’esercito di liberazione, il generale Aung San aveva risposto: “Dovresti continuare gli studi. Non ci mancano i combattenti per fare la guerra.” Win Tin dice che quell’incoraggiamento a perseverare nello studio fu decisivo poi nella sua scelta di fare il giornalista, un mestiere da esercitare in modo militante“con la forza di convinzione di un combattente”. Altro elemento importante nell’educazione del giovane Win Tin era stato il periodo di noviziato presso i monaci buddisti, che gli insegnarono le regole di una vita frugale a contatto con la natura, la tolleranza e la bontà, la passione per la letteratura e la poesia e l’amore per la propria terra.

Nel 1950, mentre frequentava l’università, Win Tin cominciò a lavorare come giornalista e a impegnarsi nel movimento di opposizione alla giunta al governo dopo il colpo di stato militare del 1962, a fianco di Aung San Sun Kyi, rientrata nel paese dopo l’esilio, praticando la disobbedienza civile non violenta, che raccoglieva larghi consensi tra i giovani e buona parte della popolazione. Ma questa azione ebbe breve durata, nell’estate del 1989 entrambi furono fermati, Aung San Suu Kyi confinata agli arresti domiciliari, Win Tin processato e condannato a 21 anni di reclusione per la propaganda antigovernativa e recluso nel terribile carcere di Insein.

Dopo la liberazione Win Tin aveva ripreso la lotta raccontando l’esperienza della detenzione e continuando a vestirsi di azzurro, il colore dell’uniforme carceraria, come forma di protesta e solidarietà con le migliaia di persone ancora recluse nelle prigioni e nei campi di lavoro  birmani. Dopo la pubblicazione del libro Win Tin aveva contribuito a smascherare i tentativi delle autorità di dare un’apparenza democratica al regime e alla nuova costituzione, dicendo chiaramente che il governo era ancora dominato dai militari e le elezioni del 2010 erano state una farsa, e aveva auspicato il ricambio generazionale nella Lega nazionale per la democrazia e sollecitato i paesi occidentali ad aiutare l’opposizione utilizzando sia le pressioni diplomatiche, sia le sanzioni economiche.

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