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Punite per la loro libertà e la loro natura

contro le donne una doppia persecuzione

La Scelta di Sophie, in cui una madre nel campo di sterminio è costretta a sacrificare un figlio per salvare l'altro, è forse il film che illustra con più efficacia simbolica la doppia persecuzione che le donne subiscono in quanto appartenenti a una religione o a un credo politico in primo luogo, e secondariamente per lo stesso fatto di essere donne. 
Oggi lo vediamo con le storie che giungono quotidianamente da molti Paesi del mondo. A partire dalla storia di Meriam Yahia Ibrahim Ishag, condannata a morte per essersi sposata con rito cattolico nel Sudan già coinvolto in numerosi crimini contro l'umanità e dove spesso prevale l'estremismo. O da quella di Farzana Parveen, lapidata dai familiari davanti a un tribunale del Pakistan, adito dagli stessi parenti, che avrebbe dovuto decidere se suo marito l'avesse sposata con o senza la sua volontà. 

Quando la donna cerca di affermare la sua libertà, che sia di vivere i sentimenti, di studiare come molte donne sfregiate dall'acido da uomini che non accettano che possano diventare persone istruite e indipendenti, di lavorare, di emigrare, di opporsi a un regime dispotico o di mettere al mondo un figlio, su di lei gravano sempre dei rischi maggiori che se a farlo fosse un uomo. 

Lo dimostrano molte storie dei Paesi ex socialisti. Ad esempio Gabriele Nissim racconta, in Una Bambina contro Stalin, che la madre della protagonista Luciana De Marchi era stata pesantemente minacciata dalla Ceka per costringerla a lasciare il marito Gino, caduto in disgrazia in Unione Sovietica. E molte altre donne, russe o italiane come Pia Piccioni, si sono trovate a dover combattere doppiamente, per tenere insieme la famiglia e per conservare la dignità. 

Succede nei Paesi comunisti, succede nei Paesi islamici, e in forma dettata da un'ideologia di dominio dell'uomo sulla donna si verifica anche in Paesi capitalisti e sulla carta democratici come il Messico, da dove si registrano sempre più casi di fughe di donne da padri o mariti violenti. 

Succede anche e soprattutto dove si verificano genocidi. Donne come Claire Ly in Cambogia e Yolande Mukagasana in Ruanda sono state colpite nei loro affetti più veri - padri, mariti, perfino figli piccoli uccisi per il solo reato di appartenere a una classe sociale o a un settore della popolazione (i tutsi non vogliono essere considerati un "gruppo etnico"). 

Amnesty sottolinea che la violenza sulle donne serve ad alimentare la discriminazione. Gli Stati dovrebbero proteggere le donne, come tutti gli altri esseri umani, dagli abusi, ma spesso anche in Paesi democratici come gli USA finiscono impuniti casi di violenza di genere, come ad esempio le sevizie di poliziotti contro le lesbiche. 

Le donne subiscono abusi se arrestate, vengono assassinate per questioni di dote o o di "onore", vengono costrette a subire mutilazioni genitali, costrette ad abortire, e spesso denunciate a loro volta quando chiedono giustizia contro i loro carnefici, com'era successo alla coraggiosa ragazza tunisina, Meriem Ben Mohamed.  

Ragazze come Malala, la giovanissima pakistana che ha subito un attentato qualche anno fa per avere difeso il diritto allo studio delle ragazze e che in seguito è intervenuta per chiedere la liberazione delle studentesse nigeriane rapite da Boko Haram, ci insegnano che è possibile non piegare la testa e lottare perché la legislazione internazionale che protegge i diritti umani sia rispettata ovunque nel mondo. 

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