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Disumanità umana

di Fernando Savater

Fernando Savater è un filosofo e scrittore spagnolo, noto in tutto il mondo per il suo libro "Etica per un figlio" ("Ética para Amador"). È stato docente di Filosofia per più di trent'anni nei Paesi Baschi e presso l'Universidad Complutense di Madrid.
Pubblichiamo di seguito una sua riflessione, comparsa su El Pais del 29 aprile 2014, sul Male e sui valori che qualificano il termine “umano” (il testo in lingua originale è disponibile nel box approfondimenti).

A partire da questo articolo, abbiamo chiesto Stefano Levi Della Torrefilosofo, e a Sante Maletta, docente di Filosofia politica all’Università della Calabria, un breve intervento su questi temi.

L’appellativo “umano” ha un duplice senso: da un lato segnala l’appartenenza alla nostra specie; dall’altro, presuppone alcuni valori come il riconoscimento dei nostri simili e della loro vulnerabilità, la compassione, la cordialità affabile, l’identificazione con l’altro che impone limiti all’arroganza del nostro io. Questi due sensi non sono sempre facilmente conciliabili. Non smettiamo mai di appartenere alla nostra specie, ma tuttavia non sempre dimostriamo i valori dell’umanità. E anche ammettere questo fa parte della nostra condizione, come afferma Terenzio ne Il punitore di se stesso: “Sono un uomo e nulla di ciò che è umano mi è estraneo”. Il che a volte, davanti a casi particolarmente atroci e che ci umiliano come specie, si traduce in un tormento intellettuale e vitale per chiunque non abbia la propria coscienza - il proprio DNA umano - troppo intorpidita.

Incorrere nell’abbandono dell’umanità come comportamento è qualcosa che si è soliti fare per ottenere qualche beneficio o qualche vantaggio tangibile. Per qualche dollaro in più, così si intitola la pellicola di Sergio Leone, e anche la disumanità (o la morte parziale della nostra umanità) guadagna il suo premio in piacere, ricchezza, potere o qualunque cosa sia. Ma quando apparentemente questo non accade? E quando la disumanità risulta gratuita, senza una ricompensa comprensibile all’infuori della diabolica felicità del suo stesso esercizio? Il grande brivido. Leggete Treblinka, il racconto che Chil Rajchman, uno dei pochi sopravvissuti, fa del suo passaggio nel campo di sterminio. È una cronaca schietta e senza fronzoli di un soggiorno all’inferno, e risulta una lettura non solo terrificante, ma anche fantastica. Da dove possono uscire questi guardiani, del cui grado o incarico concreto non si preoccupa Rajchman, che si riferisce a loro semplicemente come assassini: “Vidi un assassino”, “mi disse un altro assassino”? Quale interesse personale soddisfacevano in questa continua orgia di crimini, meccanici e così tremendamente orrendi?

Il furto dei beni dei prigionieri, che avrebbero potuto commettere senza grandi sforzi di annichilazione, non spiega quell’ostentazione di energia maligna. Non volevano neppure rieducarli, né dare una lezione ad altri come loro... Sembra che il crimine stesso fosse la ricompensa del crimine. Cosa pensare allora di questi mostri, le cui anime forse erano banali, come diceva Hannah Arendt, ma il cui comportamento non era banale, bensì atroce? Erano umani come noi? Dobbiamo ammettere che a dispetto del loro sguazzare tra viscere e sangue non debbano risultarci estranei? Come accettare il tormento di tale parentela? Però, al tempo stesso, come negarlo?

I guardiani di Treblinka sono un enigma per l’umanità condivisa, come i Khmer Rossi cambogiani, come i ragazzini che danno fuoco al mendicante che dorme infagottato nei suoi stracci. Shakespeare diede una voce torbidamente eloquente a malfattori mossi dall’ambizione, la gelosia o l’invidia, ma non so come si sarebbe regolato per rendere comprensibili i criminali disinteressati. Non ci è riuscito, a mio parere, Jonathan Littel in Le benevole. Probabilmente è impossibile mettersi al suo posto, in quel posto, tornare a Treblinka. Risuona come ultimo baluardo dell’umanità la voce di Socrate che parla nel Gorgia e dice 'è meglio subire un’ingiustizia piuttosto che commetterla', mentre Callicle si rifiutava di ascoltarlo...

Traduzione di Martina Landi, redazione Gariwo

16 giugno 2014

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