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Mettersi al posto degli altri in Israele

Janiki Cingoli sulle parole di Avraham Burg

Prima di commentare le parole di Avrahm Burg, è utile sapere chi è Avraham Burg. Figlio di Josef Burg, leader del Partito Nazionale Religioso e per 40 anni ministro in tutti i governi israeliani dell’epoca, Burg è un politico atipico e coscientemente irritante, cui è sempre piaciuto mettere il dito nella piaga.

Religioso non integralista, tra i fondatori di Pace Adesso, il movimento israeliano fondato durante la I guerra del Libano che si batte contro l’occupazione, egli rimase ferito in un attentato della destra israeliana, in cui perse la vita il suo compagno Emil Grunzweig. In quegli anni lo invitammo a Milano, per un incontro pubblico durante il quale la destra ebraica cittadina inscenò una gazzarra squadristica, cercando di impedirgli di parlare.
Negli anni successivi, fu tra gli esponenti innovatori del Partito laburista, portando avanti la battaglia per la separazione tra Stato e religione, e quella per la riforma dell’Histadrut, il sindacato israeliano, chiedendo che gli fossero tolte le competenze di gestione della previdenza sociale nazionale e fosse privatizzato l’immenso patrimonio industriale e finanziario in suo possesso, a cominciare da Bank Hapoalim, la più grande del Paese. Che insomma il sindacato tornasse a fare il sindacato.

Negli anni seguenti fu Presidente della Agenzia Ebraica, e poi della Knesset, e in quanto tale per venti giorni, nel luglio 2000, fu anche Presidente ad interim di Israele, dopo le dimissioni di Weizman. Con il passare degli anni, ha rafforzato le sue posizioni critiche, dichiarando concluso il processo espansivo del sionismo e chiedendo la fine dell’occupazione. Ha altresì dichiarato una sciagura foriera di rovinose tensioni il tentativo di fare di Israele uno Stato ebraico.

Secondo Netanyahu e la destra israeliana, si tratta di uno di quei “Self hating jews”, come fu definito anche Rahm Emanuel, il primo capo dello Staff di Obama, attualmente sindaco di Chicago.

Il suo articolo perciò è l’espressione di una evoluzione coerente, e non una improvvisazione dovuta all’emozione. Se da un lato esprime tutta la partecipazione umana e politica per i tre ragazzi ortodossi rapiti in Cisgiordania, vicino ad Hebron, egli non cessa di ricordare che lo scoppio della violenza si colloca all’interno del vuoto creato dal blocco del processo di pace, di cui Netanyahu è in primo luogo responsabile; che vi è un altro sequestro in atto, quello del popolo palestinese, e che in questo contesto vanno collocate le esplosioni di gioia dei palestinesi per quel rapimento, visto come possibile mezzo per ottenere la liberazione di prigionieri palestinesi, come già avvenne per la liberazione del soldato Shalit.
Noi ci autoassolviamo – afferma - dicendo: “I palestinesi hanno festeggiato, dopo aver sentito del rapimento”. La loro felicità ci fa contenti, dato che più li vediamo felici oltrepassando il nostro dolore, più ci sentiamo esenti dal doverci interessare a loro e alla loro sofferenza. Tuttavia non c’è una modo di aggirare il problema: è un tipo di gaudio che va approfondito e capito molto a fondo.

La società palestinese nel suo complesso è una società sequestrata.
Questa considerazione mi ricorda le parole di una altra personalità israeliana, Shulamit Aloni, grande dirigente del movimento per i diritti civili e per la pace in Israele, scomparsa nel gennaio scorso. Era a Milano, nel 1991, per partecipare alla seconda Conferenza internazionale CIPMO, “Israeliane e Palestinesi. Quando le donne parlano di pace”. Si era subito dopo la prima guerra con l’Iraq.

Anche in quella occasione le delegate israeliane rimproveravano a quelle palestinesi i balli sui tetti delle loro case, ogni volta che un missile di Saddam Hussein colpiva le case israeliane.
Lei prese la parola e disse: “Voi vi meravigliate se i palestinesi festeggiano? Io mi meraviglierei del contrario. Noi siamo gli occupanti, loro gli occupati. Noi israeliani per la nostra storia continuiamo a sentirci agnelli, mentre ci comportiamo come lupi e ci sentiamo autorizzati a comportarci così.” Fu un intervento che ci lasciò tutti scossi, anche le palestinesi.

In questi giorni, in cui le ricerche continuano, purtroppo senza risultato, io non credo che si debba in alcun modo giustificare il rapimento, perché è inaccettabile ogni atto rivolto contro i civili, anche se sono coloni.

Ma questo non significa dimenticare il contesto in cui tutto ciò si svolge.
Il Governo israeliano ha voluto trasformare la caccia ai rapitori in un attacco frontale ad Hamas, di cui si è cercato di smantellare l’infrastruttura politica e militare in Cisgiordania. Una operazione, a quanto si è ampiamente letto sulla stampa israeliana, pianificata da tempo, e riconfermata subito dopo l’accordo interpalestinese tra Fatah e Hamas e la formazione del Governo di Unità Palestinese. Una operazione che ha messo sotto coprifuoco larga parte della Cisgiordania. Una operazione volta a impedire che Hamas possa prendere il controllo della Cisgiordania, dopo Gaza, in seguito alle elezioni previste da quell’accordo tra circa sei mesi. Una operazione di cui il rapimento è stato l’occasione di lancio, ma il cui scopo non è solo, e forse non principalmente, ritrovare i tre rapiti.

Ci si deve chiedere, ammesso e non concesso che con questi mezzi si riesca a estirpare Hamas dalla Cisgiordania, chi riempirebbe il vuoto da esso lasciato, se le forze più moderate o non piuttosto i gruppi jiadisti e qaedisti, come già è successo in Iraq e in Siria.
Negli ultimi giorni, i servizi di sicurezza e i vertici dell’esercito sono intervenuti, affermando che l’operazione su larga scala contro Hamas stava ormai volgendo al termine, e che la ricerca dei tre ragazzi sarebbe oramai proseguita attraverso i normali mezzi di intelligence.
In questa rettifica di tiro ha certamente influito la portata delle operazioni già svolte, ma anche la decisa dichiarazione di condanna del rapimento fatta in arabo dal Presidente palestinese Mahmoud Abbas, in occasione del vertice dei leader musulmani in Arabia Saudita, insieme alla riconferma della piena collaborazione dei servizi di sicurezza palestinese con quelli israeliani, per assicurare la loro liberazione. A questa presa di posizione, il Presidente ha accompagnato tuttavia una ferma denuncia dello stato di assedio sotto cui la Cisgiordania è mantenuta da Israele, causando molti morti e feriti.

Naturalmente, tra un Meshaal, il leader di Hamas, che plaude al rapimento dei ragazzi e inneggia alla lotta armata, e un Abbas, Presidente della autorità palestinese, che lo condanna e ordina ai suoi servizi di collaborare per il loro ritrovamento, la divaricazione è forte e stridente, e mette in discussione il ritrovato accordo tra le due formazioni e la credibilità del nuovo Governo di Unità palestinese, che pure al momento sembra reggere.

Janiki Cingoli

Analisi di Janiki Cingoli, già presidente di CIPMO - Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

25 giugno 2014

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