La rabbia di Israele, ferito dall'assassinio dei tre ragazzi ebrei, è indubbiamente molto intensa, e la tentazione di usare tutta la propria forza per reagire e punire gli assassini potrebbe prevalere su tutte le altre considerazioni. Tuttavia, più che le valutazioni politiche contano, soprattutto in questo momento, le analisi delle Forze armate e dell'intelligence.
Analisi che non hanno prodotto risultati immediati e sicuri sull'identità dei colpevoli, e soprattutto dei loro mandanti. Osservatori internazionali, che vivono a Gaza, non nascondono le difficoltà che stanno attraversando i fondamentalisti di Hamas, assediati da gruppuscoli assai più fanatici e intransigenti, pronti al tanto peggio tanto meglio pur di far saltare l'accordo fra l'Autorità nazionale palestinese e i governanti della Striscia.
Anche in Cisgiordania, gruppi, bande e clan familiari che odiano l'Anp del presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen), disprezzano i laici del Fatah e sono insofferenti nei confronti di Hamas, hanno creato un network micidiale. Con contatti e alleanze con i fanatici sunniti dell'Isis (governo islamico della Siria e del levante), che stanno avanzando verso Bagdad.
È questa valutazione che induce Israele a non reagire alla cieca. È pur vero che l'estrema destra, che sostiene il governo di Benjamin Netaniahu, vorrebbe una rappresaglia immediata e feroce contro Hamas, ma dall'altra parte la sinistra israeliana, e in particolare gli attivisti di "Pace adesso", spingono per evitare l'escalation. Una delle considerazioni è di capitalizzare l'emozione, la simpatia e la solidarietà che circonda Israele in queste ore. Un'altra è un segnale per il capo del governo, con l'obiettivo di convincere Netaniahu ad ascoltare le voci più ragionevoli, sottraendosi all'abbraccio della destra più estrema e intransigente.
Ore difficili, insomma. In bilico tra furia giustizialista e razionalità. Tutto questo mentre l'intero Medio Oriente, devastato da troppi conflitti, rischia davvero di esplodere.