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In Ucraina fallito il progetto "nuova Russia"

Intervista ad Anna Zafesova

Anna Zafesova, giornalista russa, dal 1992 scrive per il quotidiano La Stampa, per il quale ha seguito, come corrispondente da Mosca, le trasformazioni subìte dalla Russia e i Paesi vicini, dopo la caduta dell'impero sovietico.

Trasferita in Italia, ha continua a occuparsi delle vicende di quest'area, l'ultima delle quali, in ordine di tempo, è lo scontro tra Ucraina e Russia con le tentazioni separatiste dell'Ucraina orientale. Una situazione che sembra essere giunta ad una svolta dopo l'abbattimento dell'aereo della Malaysia Airline, come la giornalista spiega in questa intervista.

A che punto siamo nella crisi in Ucraina e quali sviluppi possiamo aspettarci?

L’abbattimento dell’aereo malese rappresenta una svolta nel conflitto in Ucraina, che era divenuto ormai una guerra su larga scala tra due Stati, uno dei quali agiva per interposta persona attraverso le forze separatiste. Una guerra mascherata da conflitto interno a un Paese, l’Ucraina, e che sta volgendo al termine, mentre l’esercito ucraino riprende lentamente il controllo delle zone in mano ai ribelli. La vicenda dell’aereo riporta pesantemente sul tavolo la questione del coinvolgimento russo, che questa volta riguarda tutta la comunità internazionale, in particolare l’Olanda e altri Paesi lontani dall’Europa, come Australia e Malesia, perché molte delle vittime del disastro aereo avevano queste nazionalità. Nei giorni scorsi c’è stata la dichiarazione di Vladimir Putin, che ha dato un segnale di disponibilità, anche perché non poteva fare altrimenti: impossibile difendersi davanti alla comunità internazionale rispetto all’occultamento delle prove, dei rottami, delle scatole nere e all’impossibilità per gli esperti internazionali di raggiungere la zona dello schianto.

Che cosa vogliono ottenere i russi dal conflitto in corso in Ucraina tra i secessionisti filo-russi e le autorità ucraine?

La Russia già prima dell’inizio del conflitto aveva rivendicato il controllo sull’Ucraina, con l’idea che il Paese dovesse rimanere sotto l’influenza russa economicamente e politicamente. Una visione che il Segretario di Stato Usa, John Kerry, aveva giustamente definito ottocentesca. L’ipotesi che l’Ucraina potesse associarsi in qualche modo all’Unione europea era considerata a Mosca come una fuga, un tradimento, una perdita fondamentale per il progetto politico di Putin di ricostruire la “Grande Russia” nel territorio post-sovietico. Quando a Kiev ha vinto l’opposizione e Yanukovic è fuggito, si è insediato al potere un nuovo governo filo-europeo e in buona parte anti-russo, che non voleva restare nell’orbita della Russia, almeno di questa Russia. Dopo l’annessione della Crimea, abbiamo assistito al tentativo di ripetere questa operazione anche in altre zone dell’Ucraina, sulla base del fatto che la nazione era spaccata e alcuni ucraini guardavano più alla Russia che all’Europa. Ma l’operazione non è andata a buon fine perché è mancato il consenso delle élite locali, che invece in Crimea avevano aderito e anzi contribuito all’annessione. Le élite economiche e politiche dell’Ucraina orientale hanno preferito risolvere il conflitto dall’interno, pensando che il coinvolgimento di forze esterne avrebbe danneggiato tutti. E anche dal resto della popolazione dell’area orientale è venuto un coinvolgimento parziale. Una parte voleva andare con la Russia, un’altra voleva restare in Ucraina con un’ampia autonomia sia linguistica che economica, in modo da mantenere il legame esistente con la Russia e continuare a parlare il russo come avevano sempre fatto. Ma l’appoggio della popolazione non è stato così massiccio come in Crimea. Se si fosse trattato di una guerra simile a quella in Jugoslavia, con l’adesione di parte della popolazione, di un gruppo etnico, di una formazione sociale, sarebbe stato più facile ripetere un’operazione tipo Crimea anche a Donetsk. Invece abbiamo visto i comportamenti prudenti delle autorità di Kiev e anche delle città orientali, che alla fine non hanno aderito a questo piano. Ora stiamo assistendo a una graduale ritirata dei guerriglieri, che sono usciti allo scoperto e hanno dichiarato di essere miliziani russi, militari o ex militari provenienti dalla Russia. Quindi presentare all’opinione pubblica, sia interna che occidentale, quanto successo all’est come una rivolta dei russi oppressi da Kiev è stato difficile. L’operazione del Cremlino si è rivelata un fallimento. Tre mesi fa, dopo l’annessione della Crimea, a Mosca si parlava abbastanza apertamente del progetto di smembrare l’Ucraina e creare una “nuova Russia”. Putin stesso aveva teorizzato la non esistenza del Paese come stato nazionale e la nascita di una nuova nazione formata da regioni storicamente russe - che per vari motivi erano state trasferite all’Ucraina all’interno dell’Unione Sovietica - ma che in realtà appartenevano per ragioni di politica, storia e cultura, alla Russia. Un progetto oggi naufragato di cui si parla molto meno.

Ritiene fondato il paragone fatto da alcuni osservatori tra Putin e Milosevic, cioè tra la volontà del Presidente russo di mantenere l’influenza sull’Ucraina e altre parti dell’ex impero sovietico e il tentativo fallito di Milosevic di ricostituire una “Grande Serbia” dopo la fine della Jugoslavia?

È un paragone che per molti versi è valido, nel senso che abbiamo a che a fare con un progetto ideologicamente molto simile. Stiamo assistendo alla trasformazione di un regime post-comunista in regime nazionalista. È la stessa parabola dei serbi di Milosevic - sostituire un’ideologia ormai in disuso, ormai non più vendibile, con un’altra - e quindi sicuramente il paragone è calzante. È l’idea che la Russia, con la sua cultura, il suo popolo, sia il fratello maggiore e gli altri popoli, che avevano coabitato con i russi, non possano che essere in qualche modo sottomessi o subalterni, così come la Grande Serbia doveva guidare tutti gli altri. Da un certo punto in poi questa, oltre a essere una retorica più o meno esplicita, è diventata anche una prassi, come abbiamo visto nel tentativo della “nuova Russia” e dintorni. Ci sono molte somiglianze, ma la differenza sta nel fatto che Milosevic aveva cominciato il suo tentativo di aggregazione subito. Nel momento del disfacimento della Jugoslavia era stata la Serbia a rincorrere le altre nazioni in fuga, mentre qui stiamo assistendo a una ricostruzione a scoppio ritardato, dopo che la stessa Russia all’epoca di Eltsin aveva rivendicato la propria autonomia e anzi aveva cercato di alleggerirsi dai suoi ex satelliti, ritenendo di poter fare molto meglio da sola. Quindi stiamo parlando di un’operazione in buona parte nostalgica, che guarda più al passato che al futuro, perché nel frattempo queste nazioni hanno vissuto quasi 25 anni di un’indipendenza difficile, povera per molti Paesi ex sovietici, anche martoriata da guerre e conflitti, ma durante la quale sono cresciute delle generazioni che si sono abituate a vivere nei loro Paesi e a dire “siamo ucraini, siamo moldavi, non siamo russi, non siamo sovietici”. Il senso di appartenenza perduta a una comunità più grande si è estinto in buona parte dei popoli ex sovietici, mentre non si è estinto in Russia, dove anche per l’opinione pubblica l’idea che l’Ucraina fosse uno Stato indipendente con una propria lingua, una propria cultura, una propria politica, è sempre suonata come abbastanza assurda, un controsenso. Ci sono stati questi due trend di sviluppo sempre più divaricati, con la Russia che continuava ad avere in mente l’Unione Sovietica, mentre gli altri Paesi faticosamente cercavano un’identità nuova. Nel caso di nazioni come l’Ucraina e la Moldavia, inevitabilmente questa ricerca ha portato all’identità europea, se non altro anche per motivi geografici, per il fatto che milioni di ucraini o di moldavi lavorano e vivono da anni in un’Europa, che non è un’entità astratta o un luogo dove andare in vacanza come per la maggior parte dei russi, ma invece è una realtà assolutamente concreta, dove andare a lavorare e mandare i figli a studiare, con la quale interagire. Quindi, una delle differenze nel paragone con Milosevic è senz’altro questa: il messaggio lanciato da Putin è “torniamo a stare insieme”, una cosa molto attraente per i russi, ma molto meno interessante per la maggior parte degli ucraini. Per quanto molti si rendano conto che la Russia è un paese ricco, l’idea di beneficiare di questa ricchezza non basta, anche perché non è così ricca da rinunciare, nei vari calcoli di opportunità, alla propria autonomia e indipendenza.

Chi sono i ribelli, che obiettivi hanno e in che misura trovano un consenso tra la popolazione delle regioni contese?

La composizione dei ribelli è abbastanza interessante, alcuni dei loro comandanti non nascondono nemmeno di essere russi. Parliamo di personaggi come Igor Strelkov, un ex ufficiale – non si capisce nemmeno quanto ex – russo, che si è presentato a Sloviansk, l’ha conquistata e tenuta per due mesi con i suoi uomini armati, con un commando che lui stesso dice esser stato in buona parte formato in Russia, in Crimea e da chi è partito verso l’est ucraino. Non si tratta certo di forze locali. Come nel caso di Alexander Borodai, l’attuale auto-proclamato premier della auto-proclamata Repubblica Popolare di Donetsk, che è un signore residente a Mosca come altri esponenti dei filorussi, o come un certo personaggio di Odessa che a un certo punto si era proclamato addirittura il presidente di questa mitica “nuova Russia” e viveva a Mosca comunicando con i suoi non numerosi sostenitori a Odessa via Skype. E abbiamo tante altre testimonianze di persone più o meno reclutate anche da strutture ufficiali russe, oltre che da gruppi nazionalisti di vario tipo, e inviate nell’est Ucraina, e resoconti abbastanza attendibili della partecipazione, nella seconda parte del conflitto, dei ceceni mandati da Ramzan Kadyrov. C’è sicuramente anche un coinvolgimento di elementi locali, ma si tratta di personaggi marginali ed emarginati nel mondo ucraino: agenti immobiliari falliti, promotori di finanziarie truffa, persone magari irrequiete e ansiose di fare politica, che hanno colto al volo l’occasione di ribaltare il tavolo offerta dai russi. In effetti il tentativo di proclamare le varie indipendenze a Donetsk, Lugansk e dintorni, è durato veramente un paio di giorni, in cui alcuni si sono presentati dicendo “noi siamo il nuovo governo, non riconosciamo Kiev” e sono stati considerati, soprattutto nella confusione post-Maidan, una delle tante manifestazioni folkloristiche di quello che succede in un Paese dopo la caduta di un regime e in una situazione per certi versi rivoluzionaria. Avevano incontrato un po’ di esponenti locali, non avevano avuto alcun tipo di sostegno dalle autorità, dagli oligarchi ai governatori ai consigli regionali, e sostanzialmente la cosa era finita lì. Dopo di che invece, in pochi giorni, ci sono stati gli assedi e diverse amministrazioni di città minori, soprattutto nell’est, sono state occupate da uomini armati di ignota provenienza, e da lì è partita tutta la vicenda. Uno dei motivi per cui non si riesce a negoziare una pacificazione è proprio perché dall’altra parte non ci sono delle forze politiche non riconosciute e perciò passate alla lotta armata, ma delle formazioni per certi versi artificiali, nate sul momento, con il sostegno armato della Russia, come in Crimea, dove però gli umori filorussi erano estremamente forti e lo si è visto. In Ucraina i filorussi alle elezioni precedenti non avevano preso più del 4 %. A Donetsk e dintorni non c’era mai stato un movimento a favore del ricongiungimento con la Russia. Era una zona governata dal Partito delle Regioni, il maggiore raggruppamento dell’Ucraina, al quale apparteneva l’ex presidente Yanukovic, una forza radicata, pubblica, costituita e ufficiale, che regolarmente raccoglieva numerosissimi voti. Non c’era, quindi, una corrente secessionista e filorussa. Mosca in questa operazione si è appoggiata non all’élite locale, ma a una serie di gruppi e personaggi abbastanza emarginati. Anche per questo abbiamo assistito a una guerriglia caotica, violenta, che si è subito alienata le simpatie dell’opinione pubblica internazionale,con iniziative come ricatti, a quanto pare anche pogrom di minoranze etniche, il rapimento di osservatori europei. Azioni che una guerriglia, intenzionata a presentarsi al mondo come buona a giusta, evita di fare.

Come valuta la posizione tenuta finora dall’Unione europea nella crisi ucraina?

La Ue ha manifestato tutti i soliti problemi, ma ha discusso al proprio interno le divergenze e alla fine ha mostrato una posizione abbastanza unanime con le sanzioni alla Russia e una serie di altre misure. Sappiamo che ci sono posizioni e interessi diversi, Paesi che nei rapporti economici con la Russia ci rimettono più di altri e Paesi che possono permettersi maggiore durezza. La UE ha espresso un fronte unico sia riguardo alle sanzioni e alle richieste poste alla Russia, sia riguardo all’accettare e incoraggiare la transizione dell’Ucraina, che si è tanto impegnata per avvicinarsi al modello europeo. La UE ha riconosciuto questo sforzo e ha deciso di aiutare l’Ucraina, ritrovando così una dimensione non solo economica ma anche ideale, per diffondere nel continente i propri valori.

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