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La "verità indiscussa" sull’occupazione israeliana

secondo il negoziatore palestinese Munib al-Masri

Munib al-Masri, uomo d'affari e filantropo palestinese che ha partecipato ai negoziati tra Israele e OLP negli anni '80, spiega su Haaretz del 7 luglio 2014 che cosa serve secondo lui per rilanciare le trattative nell'ottica di una soluzione pacifica del conflitto mediorientale basata sul reciproco riconoscimento di due Stati.

La "verità indiscussa" sull’occupazione israeliana

Fin troppo spesso “gli onesti mediatori” dei negoziati di pace sono d’accordo con i nostri occupanti nel sostenere la tesi che la distruttiva diffusione degli insediamenti non avvenga su territorio occupato.

Immaginatevi per un momento un uomo che rapina qualcuno rubandogli il portafoglio pieno di soldi. La vittima, una volta stanato l’uomo, chiede indietro il proprio denaro, ma quello si rifiuta di ammettere che il contante è proprietà dell'altro: così il bottino risulta “conteso”. La parte lesa a quel punto chiama un mediatore il quale, tuttavia, adottando la logica del rapinatore sul fatto che il denaro sia “conteso” e non rubato, dice alla vittima di risolversi il suo contenzioso direttamente con il ladro. E così il "fortunato" continua a spendere, il mediatore  continua a mediare, la vittima continua a rimanere tale, e a diventare ogni giorno più povera. 

Io penso spesso a questo paragone quando, seduto nella mia casa sul Monte Gerizim sopra Nablus, guardo fuori dalla finestra e osservo la colonia di Har Bracha, in rapida crescita.

Dal 1967, i palestinesi hanno perso il controllo della loro terra, collina dopo collina, campo dopo campo, e nessuno dei mediatori che ci è stato inviato è riuscito a fermare o anche solo a rallentare questa rapida espropriazione. Anzi, spesso il mediatore di turno copriva diplomaticamente ciò che avveniva.

Questo dà ancora più fastidio perché i contorni fondamentali della soluzione dei due Stati erano ben noti e accettati dalla leadership palestinese da oltre 30 anni. Nel 1981, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, come molti altri movimenti di liberazione nazionale, perseguiva la totale sconfitta del nemico. L’articolo 1 della Carta dell’OLP, redatta nel 1964 da delegati nazionalisti all’hotel Intercontinental sul Monte degli Ulivi di Gerusalemme, recitava chiaramente: “La Palestina è una patria araba che ha forti legami nazionali con gli altri Paesi arabi, e insieme a essi forma la grande patria araba”. Per “Palestina,” certamente, i delegati intendevano tutto il territorio tra il fiume Giordano e il Mediterraneo.

Quel giorno io ero uno dei delegati. Dato che ero convinto che quella sola fosse la condizione risolutiva del conflitto, fui sorpreso quando ricevetti una telefonata al mio ufficio di Londra nel 1981. All’altro capo del filo c’era il Principe della Corona Saudita Fahd. “Sì, Sua Altezza Reale.” Il Principe sembrava su un tapis roulant, da quanto era senza fiato. Una volta calmatosi mi disse che aveva un “piano” per portare pace nella Terra Santa, e che lo aveva già discusso con Yasser Arafat.

Quello che sentii quel pomeriggio era incredibile: i sauditi erano intenzionati a offrire agli israeliani la pace con gli arabi una volta che avessero sgomberato i territori occupati, smantellato gli insediamenti, risolto la crisi dei rifugiati e concordato l’istituzione di uno Stato palestinese indipendente. A quel punto “tutti gli Stati nella regione dovrebbero essere in grado di vivere in pace”, disse.

Ancora più sorprendente per me fu la reazione di Arafat, il quale accettò quella che divenne nota come "Iniziativa di Fez". Arafat rese ancora più chiaro, nel 1988, che era intenzionato ad accettare la West Bank e la Striscia di Gaza - il 22% della Palestina storica - come il nostro futuro Stato palestinese. Non c’è bisogno di dire quanto dolorosa fosse per lui questa decisione.

La stessa logica che adottò quando decise di abbracciare gli Accordi di Oslo nel 1993, e la ragione per cui aderì all’Iniziativa Araba di Pace nel 2002 che, come quella di Fez, offriva a Israele il pieno riconoscimento e normali relazioni con gli arabi nel contesto di una pace complessiva. Oggi, il Presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas cita l’Iniziativa Araba di Pace (API) quotidianamente.

Il governo israeliano non ha mai risposto né all’Iniziativa di Fez né all’API. Nel 2013 gli israeliani hanno costruito più insediamenti di quanto non avessero mai fatto prima, e questa primavera i colloqui di pace lanciati e diretti dal Segretario di Stato USA John Kerry sono falliti, a causa dell’incessante spinta a costruire sempre più case in Palestina. 

Com’è possibile che mentre il mio amico ed eroe Yasser Arafat, e per la verità gran parte del mondo arabo e musulmano, tanto tempo fa avevano accettato una delineazione fondamentale di una soluzione di due Stati, l’occupazione sia molto più radicata oggi che quando gli Accordi di Oslo furono firmati circa 20 anni fa su un prato della Casa Bianca? 

Una delle cause principali del fallimento di così tante iniziative di pace piene di buone intenzioni, incluso l’ultimo round di colloqui, è proprio quella per cui il protagonista della mia storia non si è mai visto restituire il suo denaro: gli “onesti mediatori” troppo spesso sono d’accordo con i nostri occupanti che la diffusione distruttiva degli insediamenti riguardi una terra “contesa”, non una terra occupata; e che noi e gli israeliani dobbiamo “appianare” le nostre differenze intorno a un tavolo. Con le regole del gioco negoziale così compromesse, la giustizia continuerà a rimanere per sempre fuori dalla nostra portata.

Nessun conflitto nella storia contemporanea ha portato alla distruzione di così tante foreste come il nostro, che ha fornito carta per innumerevoli articoli, libri e tesi di dottorato, mentre si è prestata scarsissima attenzione allo stratagemma che ha trasformato un’occupazione militare in una lite su una terra “contesa”. Quando il Governatore repubblicano del New Jersey, Chris Christie, recentemente ha osato pronunciare le parole “territori occupati” in un discorso, è stato così tanto messo alla gogna dai sostenitori furenti di Israele che alla fine ha dovuto scusarsi.

Non ci sarà pace finché non viene detta questa fondamentale verità – che dal 1967 noi palestinesi siamo occupati dalle Israel Defense Forces (IDF), controllati dai pianificatori del governo israeliano e sorvegliati dal servizio di sicurezza Shin Bet. Non abbiamo bisogno di alcun “onesto mediatore” che stenda rapporti sulla nostra “contesa”, ma casomai di un onesto giudice che faccia giustizia. 

Naturalmente, un’opzione per i palestinesi è di rivolgersi alle Nazioni Unite. Il Consiglio di Sicurezza, che creò Israele nel 1947, ha condannato la costruzione di insediamenti 15 volte nel coso degli anni. Si può anche utilizzare lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale per costringere Israele a rispettare il diritto internazionale. Il movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), conquistando una pagina nella storia del movimento anti-apartheid degli anni '80, può indire contemporaneamente boicottaggi contro l’economia israeliana e la cultura israeliana.  

Queste sono tutte possibili opzioni che potremmo scegliere se non riusciamo a trovare una formula positiva e giusta di accordo tra le parti. 

Il Principe Fahd fu visionario quando, nel 1981, riconobbe che il conflitto israelo-palestinese dev'essere risolto con un accordo multilaterale che soddisfi entrambe le parti. Nello spirito dell'Iniziativa di Fez e dell'API, la comunità internazionale dovrebbe chiarire quale esito ci si attende da questo gioco: due Stati basati sui confini del 1967, due capitali a Gerusalemme e un compromesso giusto, basato su un mutuo accordo per porre termine al problema dei rifugiati secondo la Risoluzione ONU 194. In cambio, sia ora che in futuro, Israele potrà vivere pienamente in pace e sicurezza con i suoi vicini e tutti i 57 Paesi arabi e islamici. Il vantaggio per Israele supera ogni immaginazione.

Una volta che i nostri due governi torneranno intorno al tavolo dei negoziati e concluderanno un accordo di pace, noi vorremo solo vivere in armonia con gli israeliani. Ancora di più, vorremo che Israele contribuisca alla costruzione della nostra nazione con il suo know-how scientifico, informatico, imprenditoriale, sanitario e umanistico.

Ciò è quello che il futuro ci può riservare se la saggezza fa ritorno nella Terra Santa.

Traduzione di Carolina Figini

31 luglio 2014

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