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I Diritti Umani, violati e raccontati

le pellicole che mostrano la realtà

Si è conclusa domenica 28 settembre la prima edizione del Festival Diritti Umani di Lugano. Ispirata e patrocinata dal Festival du Film et Forum International sur les Droits Humaines di Ginevra, che da dodici anni attira più di 25mila spettatori, la rassegna si è posta l’obiettivo di sensibilizzare i cittadini sul tema della difesa dei Diritti Umani e di portare a conoscenza le diverse realtà, spesso lontane e poco conosciute, nelle quali tali diritti sono violati.

Un programma ricco di ospiti e una selezione di film e documentari intensa e travolgente, per parlare di Medio Oriente e dell’integralismo religioso, del processo di riconciliazione in Ruanda dopo il genocidio del 1994, della condizione dei profughi che arrivano ogni giorno in Occidente in cerca di un futuro migliore e delle donne, attiviste, manifestanti e vittime.

Numerosi i giovani che hanno partecipato al Festival, soprattutto nella giornata dedicata alle scuole, iniziata con la proiezione del documentario di Francois-Xavier Destors e Marie Thomas-Penette, Rwanda: la surface de reparation. I due registi francesi hanno girato un film sul calcio inteso come chiave di lettura dell’odio e della speranza nel Paese delle mille colline - teatro di una delle più spietate espressioni di violenza del XX secolo. Tratto dalla storia vera di Eugène Murangawa - ex portiere di una squadra ruandese sopravvissuto al genocidio e scappato in Inghilterra - che fa ritorno in Ruanda quindici anni dopo per fondare la Dream Team Football Academy, una scuola calcio per educare i giovani ai valori dello sport e per tenere viva la memoria di quanto è accaduto vent’anni prima. Raccontare il genocidio in Ruanda attraverso il calcio non è una scelta casuale. È anche a partire da questo sport che ha trovato terreno fertile la dicriminazione tra Tutsi e Hutu, presente nel Paese fin dall’inizio del secolo scorso: al termine del periodo coloniale, infatti, i francesi selezionavano gli atleti in base alla loro appartenenza etnica, preferendo i giocatori di etnia Tutsi.
Inoltre è proprio nello stadio Gatwarp (ora stadio Amahoro, che in lingua locale significa Pace) che vent’anni fa furono sterminati in un giorno circa 12mila Tutsi che vi cercarono rifugio. Ed è sempre in questo stadio che oggi si commemora l’anniversario del genocidio.

Insieme al Ruanda, il Festival ha proposto uno sguardo su altri contesti problematici per la difesa dei diritti umani. Abderrahmane Sissako ha presentato per la prima volta in Svizzera il suo film Timbuktu, già vincitore del Premio della Giuria a Cannes e candidato dalla Mauritania all’Oscar. Un sguardo analitico, magico, romantico e struggente sul Mali dominato dalla polizia islamica che, attraverso divieti e privazioni, mira a controllare il Paese. Un film incredibilmente attuale, che dà corpo e anima a quell’ISIS che da giorni occupa le prime pagine dei giornali e che fa tremare l’Occidente. Il regista mauritano parte dalla storia vera di due ragazzi, lapidati nel nord del Mali perché coinvolti in una relazione non coniugale, per costruire una narrazione chiara, lucida e precisa sull’integralismo religioso, sull’oppressione di un popolo lontano dall’interesse della comunità internazionale spesso distratta e superficiale, ma stravolto dallo stesso fenomeno che colpisce Paesi come l’Iraq o la Siria. Una pellicola forte come un grido di aiuto e di dolore, che allo stesso tempo sottolinea le differenze tra l’Islam moderato - raccontato in un bellissimo discorso dall’imam della città - e quello estremista, che vieta il calcio e la musica e obbliga le donne a coprire mani e viso. Il regista, presente al dibattito dopo la proiezione, ha richiamato l’attenzione verso tutti quei musulmani moderati vittime della jihad e verso l’Africa, entrando nel merito dell’attualità politica, sociale e culturale sia del Mali che del continente intero, senza lasciarsi andare a banali melodrammi.

Coinvolgente e toccante anche il lungometraggio di Manon Loizeau Le Regine di Saba - La rivoluzione delle donne nello Yemen, che segue dall'interno le proteste non violente del 2011 contro il regime al potere. Il documentario si focalizza sul ruolo giocato dalle donne sottomesse, emarginate e spesso analfabete, che di questa rivolta sono state le protagoniste. Capeggiate dall'attivista e Premio Nobel per la Pace Tawakul Karman, le donne yemenite sono scese in piazza al fianco dei propri mariti, fratelli e figli per rivendicare la creazione di uno Stato democratico e laico che tuteli i loro diritti. Un film intenso e straordinario sulle numerose donne di ogni fede e ceto sociale che hanno occupato le strade di San'a', determinate a cambiare il futuro dei propri figli e del proprio Paese, evocando il successo e la popolarità della Regina di Saba che diede allo Yemen benessere e stabilità.

1 ottobre 2014

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