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La civiltà dell'immagine e l'uso della violenza

il potere emotivo della comunicazione

In una società come la nostra in cui l'uso delle immagini è lo strumento principe della comunicazione, se non addirittura l'unico modo per dimostrare di esistere da parte di forze che vogliono imporre al mondo la propria influenza, diventa sempre più urgente riflettere sulle diverse finalità sottese a tale uso e soprattutto sull'impatto emotivo grazie al quale esse ottengono lo scopo per cui sono state ideate e usate. 

Si può dire senza temere di cadere nell'eccesso che l'evento in sé in tanto si può considerare evento importante in quanto rappresentato in una qualunque forma della comunicazione visiva. La sua esistenza dipende dalla sua rappresentazione. Se questa è una tesi ormai datata della vecchia semiologia, una tesi che trova applicazione nel mondo della pubblicità e dello spettacolo, le sue conseguenze sul piano della propaganda politica sono a dir poco devastanti.

Sgomenta il pensiero che le leggi della comunicazione pubblicitaria siano applicate alla propaganda terroristica, il cui fine è quello di vendere un "prodotto" particolarmente velenoso: il terrore. Questo è ciò che fanno in maniera più o meno consapevole i ragazzi di Londra diventati terroristi e boia massmediatici. La diffusione di scene di decapitazioni o di stragi di civili con corpi martoriati moltiplica a dismisura la dimensione dell'atto terroristico e gli dà un valore aggiunto, quello del contagio della paura. La decapitazione che viene freddamente registrata e mandata in giro per il mondo non è più solo una decapitazione. Un duplice divergente effetto scaturisce da un'operazione come questa. Da un lato si banalizza un evento sommamente tragico come quello della morte di un essere umano, ma dall'altro si induce chi assiste alla rappresentazione dell'evento ad attribuire nel proprio immaginario una forte valenza simbolica all'evento stesso. Anche attraverso questa dimensione simbolica passa l'autoaffermazione di coloro che esercitano la violenza fine a se stessa. 

Sembra che nella fantasia malata dei terroristi il mostrare che cosa succede a chi osa ribellarsi al loro potere o a chi oggettivamente rappresenta un ostacolo sul loro cammino, il tradurre in immagini il castigo, sia una dimostrazione del loro potere di fatto, uno sciorinare il loro diritto all'arbitrio, come è di ogni potere. L'importanza devastante del terrorismo islamista è data non solo e non tanto dalla sua capacità di esercitare la violenza gratuita quando e come vuole, ma soprattutto dall'effetto moltiplicatore dell'uso delle immagini. È su questo che il mondo dell'informazione occidentale dovrebbe riflettere. Altrimenti corre il rischio di rimanere ostaggio delle sue contraddizioni.

L'affannosa ricerca ed esaltazione di ciò che fa notizia, lo scoop, quando l'informazione riguarda fenomeni come il terrorismo, può entrare in contraddizione con l'etica della responsabilità. Accettare o rifiutare i proclami, le immagini e le minacce di forze come quella dell'Isis o altri gruppi terroristici non può e non deve dipendere dalla pura logica dell'informazione se l'informazione corre il rischio di farsi essa stessa strumento oggettivo di propaganda. Se l'uso terroristico delle immagini trasforma l'informazione in un'arma simbolica ma non per questo meno letale, chi dell'informazione è responsabile dovrebbe sottrarsi a questa strumentalizzazione, nella consapevolezza che il diritto all'informazione rimane un principio da salvaguardare ma che non si può mettere al di sopra del rispetto per le vittime.

Questo ragionamento trova una sua controprova in positivo in un contesto antitetico a quello della propaganda terroristica. Laddove i violenti non sono interessati a far conoscere le proprie azioni scellerate, anzi cercano di evitarlo, in quanto ciò nuocerebbe al consenso che essi ricercano, la scoperta e l'uso delle immagini che mostrano ciò che essi fanno può tradursi talvolta nella salvezza delle vittime. È questo il caso di Irina Dovgan, messa letteralmente alla gogna da parte delle forze separatiste ucraine e massacrata pubblicamente nel suo stato di detenzione. Quando una foto di Irina messa alla gogna è apparsa sul New York Times l'effetto è stato pressoché immediato e la sua liberazione ottenuta senza indugio. In questo caso l'immagine ha gettato discredito sui responsabili dell'evento rappresentato. 

È quindi compito del mondo dell'informazione decidere quale uso fare delle immagini, non in base a un astratto principio di diritto all'informazione ma considerando una scala di priorità sulla base della quale misurare l'importanza degli obiettivi che si vogliono raggiungere. 

14 ottobre 2014

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