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Lettera ai figli. Da Praga ad Auschwitz

di Anna Hyndráková Medusa Edizioni, 2012

Anna Hyndrakova, ebrea, ha solo 18 anni nel 1942 quando viene deportata con tutti i parenti, prima a Terezin e poi ad Auschvitz, dove sopravvive allo sterminio della sua famiglia. 

A causa della secolare dominazione austriaca, negli anni che seguono la Prima guerra mondiale la società cecoslovacca era multilingue. Nel Paese appena costituito vivevano accanto ai Cechi e agli Slovacchi varie minoranze etniche: i tedeschi, i polacchi, gli ungheresi in Slovacchia e gli ebrei in tutta la Repubblica. Questi ultimi, in particolare, sentivano di appartenere per tradizione alla cultura tedesca, anche se erano quasi tutti bilingue, mentre alcune famiglie in Boemia e Moravia si identificavano con la nazionalità ceca in base alla preferenza linguistica. Propensione irrilevante per i nazisti, che nel 1940, nella Cecoslovacchia occupata, diedero inizio alla sistematica selezione razziale fino alla deportazione nei campi di sterminio. 

Il libro, scritto nel 1971, viene pubblicato negli anni Ottanta per le edizioni di Samizdat a Praga e diffuso clandestinamente in forma di manoscritto tra pochi lettori. Successivamente compare in una raccolta in Inghilterra, anche se a Praga a tutt'oggi non è stato pubblicato, mentre è apparso in Italia grazie all'editore Medusa e alla traduttrice Tiziana Menotti.

Si tratta di una testimonianza della Shoah, sempre necessaria affinché le generazioni di oggi siano in grado di riconoscere i genocidi e abbiano piena coscienza dei fatti accaduti, senza aspettare anni, come invece successe nel dopoguerra.

Tornata a Praga alla fine della guerra, l'autrice si è laureata in scienze politiche a Praga e ha lavorato a lungo all'Archivio e al Museo ebraico della città; ha scritto il libro solo 26 anni dopo il ritorno dal campo, come se fosse indispensabile un lungo periodo di tempo per avere il giusto distacco da una vicenda terribile.
Lettera ai figli è il racconto autentico, senza falso pudore e condizionamenti sociali, di una giovane ebrea sulle deportazioni, le vessazioni subite dai carnefici, il costante e quotidiano pericolo di morte e la necessità di “restare umani in condizioni disumane”, senza nascondere le difficoltà personali una volta tornata libera a Praga, a causa dei sospetti e delle accuse dei parenti rimasti, e dell'incredulità della società nei confronti di quanto narrato dai sopravvissuti.

Anna Hyndrakova scrive perché non si dimentichi e non si ripetano le tragedie già vissute, che pure si sono ripresentate più volte nella storia recente: il vero pericolo sono gli uomini e le donne senza principi etici che si allineano alle opinioni dominanti quando il potere degenera e li trasforma in criminali.

Alla fine della storia l'autrice cerca, almeno simbolicamente, di rompere con il passato, per vivere un’esistenza normale. Il suo profondo coraggio nel descrivere le atrocità viste e vissute è dedicato a tutti noi, affinché non ci sottraiamo al dovere di riconoscere e di combattere ogni “umana disumanità”.

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