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Io no. 1211. Nell'inferno delle carceri comuniste cecoslovacche

di Dagmar Šimková Paoline Editoriale, Libri 2013

Il titolo italiano del libro è diverso da quello ceco (C'eravamo lì anche noi), come se l'editore volesse mettere sullo stesso piano la lunga prigionia di Dagmar Simkova nelle carceri del regime comunista nel dopoguerra e i campi di concentramento nazisti. Il paragone tra i due regimi, stalinista e nazista, nonostante alcune similitudini, almeno in Cecoslovacchia non è del tutto scontato. Mentre il comunismo perseguitava i propri oppositori, allo stesso modo del nazismo, l'aspetto razziale non era determinante e i prigionieri avevano più speranze di uscire di prigione – anche se in alcuni casi furono condannati a morte. Questo accadeva, in alcuni casi, per la concessione della grazia o per l'amnistia generale della fine degli anni Cinquanta.

L'assurdità delle accuse e delle condanne - a volte un semplice regolamento di conti in processi farsa - fu allora ammessa dal regime, ma questo non valse per Dagmar Simkova, rinchiusa in prigione sino al 1966. La sua storia di prigioniera politica si concluse dopo 14 anni, probabilmente a causa della sua fermezza nel rimarcare la netta distanza fra sè e i carcerieri, nonostante accuse banali come quella di aver voluto lasciare il Paese per un altro considerato nemico. Ciò che in una società democratica sarebbe un'assurdità, qui serviva al regime per sottomettere i cittadini creando un'atmosfera di paura, sospetto e soprattutto di obbedienza. Inoltre, la condanna anche della madre, durata ben 11 anni, fa crescere il sospetto che l'interesse per la villa dove abitavano fosse il vero motivo della loro prigionia.

Il libro racconta le condizioni di vita nei lunghi anni di carcere con un senso di profondo rispetto per la drammatica verità e con l'intenzione di fornire, oltre che una testimonianza, una sorta di manuale di sopravvivenza mentale durante la detenzione. Il testo è stato criticato da altre prigioniere, poiché non è reticente su alcun comportamento. Purtroppo l’edizione italiana è stata privata proprio delle pagine più crude sulla realtà dell’essere donna in quelle condizioni. 

Il libro non è solo un atto di accusa verso il regime e i sui luogotenenti; racconta dello squallore che nonostante tutto non sempre riesce a piegare le detenute, anche se all'orizzonte non si intravede la speranza che qualcosa possa cambiare.
Il racconto rivela il talento letterario dell'autrice, paragonabile agli scritti dei prigionieri russi nei gulag già negli anni Venti. I processi e le persecuzioni perpretrati dopo la guerra in Cecoslovacchia sono il collegamento più evidente tra le politiche punitive del partito comunista sovietico e di quello cecoslovacco.
La testimonianza di Dagmar Simkova rimane tra le più significative e illuminanti nella letteratura che racconta gli anni della repressione.

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