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Identità

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I concetti di identità e multiculturalità vengono spesso messi in contrasto, un contrasto insanabile, da gruppi di demagoghi i quali sono unicamente interessati a fare del confronto fra le diverse identità un motivo di propaganda nonché un oggetto retorico da utilizzare come leva, per non dire scorciatoia, in buona sostanza un pretesto, che dovrebbe, a loro modo di vedere, indicare la strada per risolvere le crisi (economiche, sociali, politiche) all’interno della formazione sociale a cui appartengono. Questi gruppi si impossessano del tema dell’identità sull’onda della reazione emotiva dei soggetti coinvolti nella crisi, appiattendolo sulle paure del presente e portandone alla luce unicamente gli aspetti escludenti e autodifensivi. All’inizio, essi stessi sono soggetti impauriti. Impauriti, e allo stesso tempo incapaci di quella che chiamerei la “distanza del pensiero”, cioè il necessario distacco emotivo che mette in condizione di pensare. È su questa consonanza iniziale favorita dall’aggravarsi della crisi, secondo me, che si basa il successo elettorale dei movimenti localistici. I loro capi sono veramente “uomini del popolo”, un popolo che reagisce ai problemi in cui è immerso nell’unico modo che, fin dai primordi dell’umanità, sa fare: cercando il capro espiatorio.

Esiste però un possibile approccio al tema dell’identità più ragionato, che non comporta come conseguenza necessaria né la xenofobia e tanto meno il razzismo. Questo approccio, alternativo a quello viscerale, riconosce il configurarsi dell’identità come condizione indispensabile per la formazione sia degli individui sia delle comunità.

Il concetto di identità si situa al crocevia di itinerari di vario genere e natura, da quello psicologico a quello antropologico, da quello storico a quello politico, da quello etico a quello metafisico. Parlare di identità è un po' come parlare di anima o di cultura (proprio nel senso antropologico).

Se è vera questa premessa, allora bisogna fare molta attenzione al registro che usiamo quando parliamo di identità; in caso contrario, corriamo il rischio di generare dei corti circuiti che potrebbero assumere la forma di falsi problemi. Mi riferisco, ad esempio, alla contraddizione apparentemente insanabile fra identità e cosmopolitismo, fra tradizione e progresso o a quella, devastante, fra "noi" e "loro". Che l'elaborazione di una propria identità sia un processo del tutto imprescindibile non solo nella vita degli individui, ma anche nella vita delle comunità è la tesi su cui sia la psicologia sia l'antropologia concordano. E' il modo in cui questa elaborazione avviene, che va scandagliato, capito e discusso.

Quando ero giovane, non riuscivo a comprendere come fosse possibile che gli esseri umani potessero scannarsi fra di loro in nome e in difesa della loro identità. Ragionavo da illuminista e tendevo a dare alla ragione, che ritenevo fosse la vera "identità" degli individui, un ruolo molto più esteso ed efficace di quanto in realtà potesse avere. Mi indignavo di fronte al rinascente tradizionalismo seguito - o forse solo affiancato - alla cultura illuminista. C'è voluto molto tempo, prima che mi rendessi conto che così nella vita degli individui come nella vita dei popoli, non è la ragione a dettare il "ruolino di marcia" dell'umanità. Che, in fondo, la cosiddetta "cultura" è un insieme di stratificazioni sedimentate nella nostra esperienza di specie come gli strati geologici della crosta terrestre; e queste stratificazioni rappresentano le nostre abitudini, i nostri rituali, la nostra interpretazione della natura, le nostre divinità, in una parola: le nostre radici. La ragione, in un contesto del genere, rappresenta la stratificazione più recente, la più bisognosa di consolidamento, sicuramente una delle coordinate meno importanti della nostra identità. Almeno sotto il profilo storico.

Storicamente, le dottrine identitarie sono servite a giustificare le guerre e a glorificare i propri eroi; nei casi estremi, nella fattispecie delle teorie razziste, hanno portato al totalitarismo e ai campi di sterminio. I nazionalismi otto/novecenteschi hanno avuto le loro "sacre rappresentazioni"nell'idolatria della "Patria" e nello sventolio della "Bandiera" nazionale. Ma potevano fare le loro marce trionfali solo in quanto ad essi era sotteso un sistema economico che consentiva il controllo dei tre quarti del mondo povero da parte di una minoranza di Stati coloniali. Il nazionalismo odierno – ricondotto alla forma estrema del municipalismo – è, ahimé, ridotto ad affidarsi alle "teorie" di leader che non conoscono la storia e non sono interessati a conoscerla, assumendo sempre di più i connotati di un comunitarismo escludente, fatto da individui che appaiono gretti, ciechi, sordi ed egoisti. Non è il caso di scomodare la parola "razzismo", non solo perché rifiutata dagli stessi movimenti xenofobi, ma soprattutto perché è un termine che richiede un certo grado, per quanto aberrante, di elaborazione teorica, cosa che non si può chiedere a chi si vanta della propria rozzezza.

Non credo, d’altra parte, che la soluzione al conflitto di identità possa essere data dall’annacquamento di un’identità rispetto ad un’altra o, peggio, dalla negazione del proprio passato, della propria memoria e dei propri valori, in nome di un generico “embrassons-nous” in cui nessuno appartiene a niente. L’unica strada che vedo aperta è la conoscenza e il riconoscimento –con l’ovvio corollario dell’accettazione – del diverso da noi, nella prospettiva di approccio all’individuo in carne ed ossa con le sue radici e le sue convinzioni. Perché, quando gli individui si parlano e si riconoscono reciprocamente, riescono sempre a trovare buoni motivi per non distruggersi reciprocamente. Ritengo un destino ineludibile per gli esseri umani delle generazioni future, quello di “essere condannati” a confrontarsi, a dibattere e a scegliere mettendo in competizione diverse visioni del mondo e divergenti convinzioni. Definisco “ineludibile” questo destino, perché non vedo altra rotta che non sia quella di un’ininterrotta dialettica, che possa portare fuori dalle secche dell’egoismo e del fondamentalismo.

La teoria del “conflitto di civiltà” di Samuel P. Huntington, assolutizzando e banalizzando il concetto di civiltà, sembra portare a conclusioni diametralmente opposte. Ma dietro il concetto assoluto di civiltà, c’è una semplificazione altrettanto rozza di quella che c’è dietro il concetto di Stato nazionale. Certo, sarebbe ingenuo aspettarsi che il confronto fra le culture non passi prima di tutto attraverso forme di contrapposizione talora violenta, significherebbe negare l’evidenza storica e anche di ciò che accade sotto i nostri occhi. Ma i fondamentalismi, presenti – sia detto con chiarezza – in ogni cultura, non rappresentano la vera identità della cultura di cui si fanno portavoce e paladini. La superficie monolitica delle civiltà, a ben guardare, è molto più frastagliata di quanto uno sguardo superficiale lascerebbe supporre. Le contraddizioni corrono non solo fra civiltà e civiltà, cultura e cultura, ma mettono in condizione di instabilità le stesse culture dal loro interno. Tanto che possiamo ipotizzare che esistano maggiori affinità fra un cittadino di Singapore e uno di New York che non fra un cittadino di Singapore e un contadino indonesiano. Deduco da queste considerazioni che le tesi di Huntington, che vorrebbero prefigurare gli scenari della storia futura, non si reggono su analisi accurate e su categorie storiografiche plausibili.

Contrariamente a quanto pensa lo studioso statunitense, sostengo che sarà la forza degli eventi che imporrà, in un modo o in un altro, e in tempi non facilmente quantificabili, la competizione pacifica fra le culture, ciascuna delle quali dovrà fare delle concessioni per ottenere dei riconoscimenti.

Il confronto non sarà fra principi astratti, fra opposti valori assoluti, ma sarà fra diversi modi di operare nella vita, e le soluzioni non potranno presentarsi che come provvisorie, in continuo divenire, e avranno la meglio quelle che sapranno dare risposte concrete a domande concrete.

Salvatore Pennisi

Salvatore Pennisi, Commissione educazione Gariwo

13 novembre 2014

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Agorà degli insegnanti a cura di E. Bellotti e A. M. Samuelli

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