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Ahmed Merabet, il giovane musulmano morto per la libertà di tutti

di Shady Hamadi

Quando il 22 luglio 2011 si venne a sapere che il massacratore di Utoya era Anders Breivik, un giovane norvegese, biondo e cristiano, il peso di quella strage, nella quale perirono settantasette giovani, venne scemando. Un giornale italiano che aveva preparato una copertina in cui si puntava il dito, senza nessuna prova, contro il solito gruppo di fanatici islamici e contro la violenza insita all’interno dell’Islam, dovette ristampare la prima pagina. Nei giorni successivi non si aprirono dibattiti sulla natura del cristianesimo o sulla cultura europea. Nessun occidentale si sentì chiamato a scusarsi per quello che Brevik aveva fatto. Non era colpa di nessuno, eccetto che di Brevik. Ed è qui che sta la differenza con quello che accade oggi. Oggi si chiede all’intero mondo islamico, ai due miliardi di fedeli, di scusarsi per le gesta di due terroristi. Viene messa in discussione la natura dell’Islam, del suo profeta e la bontà di ogni fedele.

Abbiamo paura che tutti i musulmani, indistintamente, bambini o adulti, possano essere come quei due terroristi che hanno massacrato senza pietà dodici persone. Molti politici e commentatori invitano a chiudersi a riccio, per «difenderci dall’orda islamica», perché non è possibile nessun dialogo con l’Islam, come non esiste nessun Islam moderato. Gli uomini dell’apocalisse invocano una chiamata alle armi per difendere la nostra civiltà, assediata da un’orda di barbari. Si vuole ritornare alle crociate.

C’è chi da anni fa proselitismo fra le fasce più povere delle nostre società adoperando slogan nei quali si dichiara che i problemi economici, la crisi, sono stati portati dai clandestini. Quindi, a detta loro, basterebbe eliminare i clandestini, gli immigrati, primi fra tutti i musulmani, per superare ogni problema e vivere nella prosperità. Questi signori vi diranno che per evitare atti terroristici sarà meglio non concedere moschee, perché quei luoghi di culto sono le fucine del terrorismo. Vi assilleranno iniettandovi la paura verso l’arabo e, forse, in un futuro non poi così lontano, qualcuno dichiarerà che per proteggere la nostra società dall’Islam sarà meglio creare dei quartieri controllati nei quali confinare i musulmani, magari obbligandoli a portare un simbolo su di una giacca, caso mai si mimetizzassero troppo.

Se, invece, sceglierete di ascoltare la ragione, relegando in un angolo gli imprenditori dell’odio, allora potrete comprendere che le prime vittime del fondamentalismo sono i musulmani, come Ahmed Merabet. Fra le dodici vittime del commando terrorista vi è anche un poliziotto francese e musulmano, Ahmed Merabet appunto. Ahmed era di guardia fuori dalla redazione di Charlie Hebdo ed è lì che è stato freddato insieme a un suo collega. Merabet potrebbe essere il simbolo di quello che tento di dirvi. Sono i musulmani, nella loro collettività, a venire costantemente identificati con quella minoranza di fanatici che semina morte. Sono sempre i musulmani a morire a migliaia, uccisi dalle bombe di dittatori laici e fondamentalisti.

Per risolvere la questione del fondamentalismo islamico non dobbiamo cercare le soluzioni nell’interpretazione del Corano o nella figura del profeta; ma dobbiamo aiutare le società arabe a emanciparsi da regimi totalitari, sostenuti anche dall’Occidente, che opprimono intere popolazioni. È l’oppressione, l’assenza di prospettive per il futuro e la dilagante ignoranza, causata dalla povertà crescente e dallo smantellamento dell’istruzione, a fornire il terreno fertile per il proselitismo dei fondamentalisti. È la sensazione di assedio che il mondo islamico percepisce, accusato di essere complice del terrorismo, a dover essere cambiata.
Se guardiamo la storia contemporanea dei paesi arabi noteremo che negli ultimi cent’anni sono stati pochi i Paesi che hanno vissuto un periodo di reale libertà. La concessione della libertà, il supporto e il riconoscimento delle società civili arabe è il primo passo verso la strada dell’incontro. Ahmed Merabet è morto da musulmano, ucciso da dei fondamentalisti, nella difesa delle libertà di tutti. Ed è il suo gesto a doverci ridare la ragione e il discernimento di cui oggi abbiamo tanto bisogno.

Shady Hamadi, scrittore e attivista siriano

Analisi di

8 gennaio 2015

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