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La Shoah dello sport

di Leonardo Coen

Dagli stadi ai campi di sterminio: la Shoah dello sport ha numeri spaventosi, sessantamila atleti persero la vita nei campi di sterminio secondo lo storico Sergio Giuntini (autore di Sport e Shoah, ed. Giuntini di Firenze) e di essi ben 220 erano stati campioni olimpici, mondiali e nazionali, star del calcio o dei ring, detentori di record e trofei internazionali. Nel giorno della Memoria, l'Italia dello sport ricorda spesso – anche in questo 2015, con un documentario della Rai – il martirio di Arpad Weisz, ebreo ungherese trapiantato in Italia, che divenne allenatore dell'Inter (scoprì l'immenso talento di Meazza) facendole vincere uno scudetto, poi passò al Bologna che la terra tremare fa, e coi rossoblu gli scudetti furono due. Le leggi razziali del 1938 lo indussero a scappare, trovò rifugio dapprima a Parigi e dopo in Olanda. Preso con la moglie e i figli, venne internato nel campo di transizione di Westerbock, lo stesso in cui passò Anna Frank, nel gennaio del 1944 lo destinarono ad Auschwitz, dove morì a 48 anni.

Ma io vorrei ricordare la vicenda collettiva di un famoso e popolare circolo austriaco, fondato da ebrei: lo Sport Klub Hakdah, parola che in ebraico significa forza. Era una società ginnica che poco per volta si aprì ad altre discipline. Come il nuoto. E soprattutto, il calcio. La squadra di football aveva una maglia con una grande H che spiccava sul petto, affiancata dalla stella di Davide. Franz Kafka tifava per lei. L'Hakdah vinse lo scudetto del 1925 e numerosi altri tornei, erano gli anni in cui il calcio danubiano dettava legge in Europa e legnava i tradizionali rivali teutonici. L'Anschluss del 1938 sancì la fine di tutti i sogni di gloria calcistica, per l'Hakdah che era diventata una sorta di bandiera dell'orgoglio ebraico. Fu un tragico triplice fischio finale, quello dei nazisti al potere. La federcalcio austriaca confiscò i trofei vinti, cancellò dall'albo d'oro tutti i risultati. E deportò la squadra di calcio al famigerato campo di Theresienstadt. Le ultime immagini che noi abbiamo sono quelle di una partita che i prigionieri dell'Hakdah disputano contro la formazione delle SS, in divisa nerissima. Poi, più nulla.

Anche in piscina, il Klub si difendeva bene, anzi benissimo. Ci sono nuotatrici bravissime, Ruth Langer, per esempio, a soli quattordici anni stabilisce i primati nazionali dei 100 e dei 400 stile libero, nel 1935. È selezionata, assieme alle compagne di club le nuotatrici Lucie Goldner e Judith Deutsch, nella squadra che andrà ai Giochi di Berlino del 1936. Ma l'antisemitismo, ormai, è dilagante. Un giorno, nella piscina dove lei e le compagne si allenano, compare un cartello: “Vietato l'ingresso ai cani e agli ebrei”. Il caso suscita scalpore all'estero. La federazione mondiale degli sport club ebrei presieduta da lord Melchett d'Inghilterra raccomanda il boicottaggio. Così, Ruth dice di no alle Olimpiadi. Immediatamente scatta la procedura disciplinare: è radiata, i record rimossi. Ha tradito lo spirito olimpico, è l'accusa, ha danneggiato seriamente gli interessi dello sport austriaco. Ruth fugge da Vienna pochi giorni dopo l'annessione dell'Austria al Terzo Reich. Ripara in Italia, nel 1939 emigra a Londra, dove si sposa nel 1943. E dove muore nel giugno del 1999, a 77 anni. Soltanto quattro anni prima la federazione austriaca del nuoto cancellò il vergognoso bando del 1936, e la riabilitò.

Lucie Goldner Gordian, invece, va a Berlino lo stesso. Ha diciotto anni. Ha scelto di rappresentare l'Austria, ma nella sfilata inaugurale degli atleti davanti a Hitler, si rifiuta di fare il saluto a braccio teso. Il governo austriaco la squalifica a vita ma la stampa internazionale denuncia lo scandaloso provvedimento e il governo riduce la pena ad una sospensione di due anni. Quando però i nazisti invadono l'Austria, è arrestata. Durante l'interrogatorio, il medico della stazione di polizia la fa scappare dal retro. E qui comincia un'incredibile storia da film di spionaggio.

Lucie si tinge i capelli, diventa bionda. Camuffa la stella gialla che la identifica come ebrea, mette in valigia i trofei e piglia il treno per Berlino. La carrozza sulla quale viaggia è zeppa di agenti della Gestapo, compresi coloro che assassinarono il presidente austriaco Dolfuss. C'è persino il pilota personale di Hitler, che fa il galante con lei. Capisce che è ebrea. Ma l'aiuta. Le passa il distintivo, una svastica d'oro e gliela fissa sul risvolto del tailleur: “Con questo andrai sicura sino a Berlino”. E fu così. In qualche modo, riesce a raggiungere Londra. Morirà in Australia nel 2000. In questi giorni di memorie atroci, ho pensato che alle storie di morte fosse giusto accostare storie di sopravvivenza. Una chance che non ebbe il poderoso Albert Richter, detto il “cannone” di Ehrenfeld, un asso del ciclismo, campione del mondo sprint nel 1932, titolo conquistato all’età di vent'anni. Era ariano. Ma non accettò mai di separarsi dal suo allenatore ebreo Ernst Berlinger, come invece pretendevano i nazisti. E rifiutò di fare la spia durante le sue trasferte all'estero. Nel 1939 vince il prestigioso Gran Premio di Berlino. Capisce che ormai gli resta poco tempo e che gli sgherri della Gestapo lo stanno braccando, per rinchiuderlo in un campo di concentramento come antinazista. Ha messo da parte soldi e preparato la fuga in Svizzera. Per qualche tempo non si sa più niente, sembra svanito. Qualche mese dopo, comincia a circolare una strana voce: Richter sarebbe rimasto vittima di un incidente. In realtà era stato torturato a morte nella prigione di Lorrach, al confine con la Svizzera, nella notte tra il 2 e il 3 gennaio del 1940. Suo fratello ritroverà il cadavere straziato in una pozza di sangue, nella cantina del convento Sainte-Elisabeth.

E che dire del grande bomber Matthias Sindelar, moravo fieramente antifascista che aveva giocato nella nazionale austriaca degli anni Trenta, il mitico Wunderteam, la squadra delle meraviglie, una delle più forti del mondo, di cui Sindelar fu capitano? Esile ed armonioso nei movimenti, lo chiamavano il Mozart del pallone. La sua avversione per il nazismo fu fatale. Aveva rifiutato di giocare nella nazionale tedesca. Un affronto. Il 23 gennaio del 1939 lo trovarono senza vita nel suo appartamento, abbracciato alla compagna Camilla Castagnola, un'ebrea italiana. L'inchiesta fu archiviata in poche ore - avvelenamento di monossido di carbonio sarebbe stato l'esito autoptico. I due furono seppelliti in fretta e furia. Circolarono parecchie versioni, chi parlò di suicidio, chi di vendetta nazista. Si disse che Sindelar avesse qualche ascendenza ebraica, a rafforzare il mistero di una morte che sapeva di regolamento dei conti. Il campione che non si era piegato a Hitler e che aveva sfidato le leggi razziali.

I nazisti, infatti, non gli perdonarono l'ultimo incontro con la maglia della nazionale, che fu anche l'ultimo incontro del Wunderteam: la disperata ed orgogliosa Anschlusspiel, la “partita della riunificazione” che si disputò tra Austria e Germania allo stadio Prater di Vienna il 3 aprile 1938. L'addio del Wunderteam. Dopo di che, i migliori giocatori austriaci sarebbero dovuti passare nelle file della nazionale tedesca che sperava di conquistare, con questo trucco, il titolo mondiale del 1938. Gli austriaci scesero in campo con una divisa inedita: al posto della maglia bianca coi calzoncini neri, indossarono una maglia rossa e i pantaloncini bianchi. I colori cioè della bandiera. Ed è proprio Sindelar, il capitano, a segnare il gol dell'1 a 0 al 70esimo minuto. In fin di partita arriva il raddoppio per merito dell'amico Karl Sesta, pure lui antinazista. Alla fine del match, secondo il protocollo imposto dagli organizzatori, i calciatori dovevano salutare le autorità naziste che erano in tribuna. Tutti i calciatori, compresi gli austriaci, fecero il saluto nazista.

Tranne Sindelar e Sesta, gli autori dei gol. La Guerra incombe, ormai, e i maledetti semi dell'Olocausto stanno per germogliare l'inferno delle camere a gas, i massacri dei campi di concentramento, le atrocità di Eichmann e Mengele. Sindelar lo sapeva. Un giorno, incontrando Michael Schwarz, presidente dell'Austria Vienna rimosso dalla carica perché ebreo, Sindelar gli disse: “Il nuovo Führer dell'Austria Vienna ci ha proibito di salutarla, ma io vorrò sempre dirle buongiorno ogni volta che avrò la fortuna d'incontrarla”. 

Leonardo Coen, giornalista e scrittore

Analisi di

26 gennaio 2015

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