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Bernard Grzywacz e Anna Szyszko

due polacchi nell’inferno del gulag

Testimonianza della figlia Barbara Grzywacz, 7 maggio 2004 

I miei genitori, entrambi polacchi, non si erano mai incontrati nel loro paese, ma si sono conosciuti in un gulag della lontana Siberia. 
Allo scoppio della guerra mia madre era una ragazza di soli 16 anni e mio padre, già laureato al Politecnico di Varsavia, si trovava in Francia per uno stage. Con l’invasione tedesca della Polonia nel 1939, mia madre entrò a far parte della resistenza come staffetta ed infermiera dell’Armata Nazionale AK e mio padre, tornato immediatamente in patria, incominciò la sua attività nella resistenza (NOW e AK), coprendo vari incarichi di responsabilità, prima a Varsavia e poi a Leopoli. 
Finita l’occupazione nazista, al ritorno dell’Armata Rossa, incominciarono gli arresti di massa tra la popolazione ed i membri dell’AK. I miei genitori, tutti e due, furono arrestati dai servizi segreti sovietici ( KGB) nel 1945 e condannati dai Tribunali di Guerra, per tradimento della patria e congiura: mia madre a 20 anni, più 5 di katorga (lavori forzati), mio padre alla pena capitale che, dopo mesi di attesa dell’esecuzione in compagnia dei criminali comuni, fu commutata in 20 anni, più 5 di lavori forzati. Passarono un anno in varie prigioni, tra cui la Lubianka e Butirki a Mosca, finché, nel 1946 vennero spediti coi carri bestiame all’estremo Nord della Siberia, al di là del circolo polare. Vorkuta era uno dei grandi complessi dei lager del sistema Gulag, dove i condannati ai lavori forzati lavoravano in condizioni estreme, costruendo la ferrovia e scavando le miniere da cui ricavavano carbon fossile. I miei genitori si sono conosciuti lì, in un luogo ostile e disumano, tramite la corrispondenza clandestina, nonostante i contatti tra i prigionieri fossero vietati e puniti duramente.
Nel ’47 mio padre apprese da un russo spedito a Vorkuta come libero-confinato, che nella miniera n. 2 erano detenute delle polacche, tra cui Cristina, una sua staffetta di collegamento dell’AK: le scrisse un biglietto che il russo accettò di recapitarle, nonostante il rischio. La risposta arrivò dopo mesi e mio padre scoprì che Cristina faceva parte di un gruppo molto unito di cinque connazionali, le “Cinque Gemelle”. 
Anche nella miniera n. 6, dove si trovavano circa 100 polacchi, si erano creati dei gruppi. Quello di mio padre si chiamava “KASK” (Club dei Vecchi Scapoli) e contava sette uomini, che decisero di iniziare una corrispondenza molto pericolosa, ma che portava nella vita terribile di tutti i giorni un barlume di speranza. Tirarono a sorte i nomi delle donne e il destino assegnò a mio padre Anna Szyszko. Nessuno di loro poteva sperare nel futuro perché tutti pensavano di morire nel campo. Per anni si scrissero scambiandosi dei regalini innocui che non destassero sospetti; non importava se, mandati prima di Natale, arrivavano a destinazione per Pasqua. 
La possibilità di incontrarsi arrivò soltanto nel 1955, quando uscirono in semilibertà. Dopo il ritorno in patria nel 1957, Bernard e Anna si sposarono e vissero insieme 36 anni, fino alla morte di mio padre. Riuscirono a portare con sé, di nascosto, dei piccoli oggetti fatti a mano dai condannati e una quarantina di foto scattate da mio padre nel periodo di semilibertà, con il rischio di essere scoperto e di subire un'altra condanna. Tra di esse vi è una panoramica dei lager della zona di Vorkuta, l'unico documento di questo genere esistente. Le foto sono state esposte in varie mostre, prima clandestinamente in Polonia e dopo il 1990 apertamente in vari paesi. Gli oggetti dei detenuti sono raccolti nella mostra curata dalla Fondazione Feltrinelli “Gulag. Il sistema dei lager in URSS”, esposta in tutta Italia.
Mio padre non parlava volentieri dei fatti di cui è stato testimone e vittima, ma grazie alle sue memorie e a un documentario che lo vede protagonista, la straordinaria esperienza che ha vissuto non è andata perduta. Ora il suo racconto sta per essere pubblicato in Polonia nel libro “Cerchio di Vorkuta”, corredato dalle sue foto. 

Dall’intervista a mio padre (documentario del 1991 intitolato “Documento di Bernard Grzywacz”)
Riflettevo spesso se valeva la pena parlare di tutto questo, di questi orrori, in tempi cambiati e in un mondo cambiato, e se sarei stato capito. So che non tutti vorranno credere che i cadaveri dei detenuti venivano buttati completamente nudi nella neve, che le ossa umane erano sparse nella tundra, che durante l'estate polare le acque portavano i resti umani; che là c'era per noi l'inferno sulla terra. Mi è difficile raccontare tutto questo, fare capire cosa si sentiva in quei momenti. Tuttavia non solo io, ma anche gli altri pensavamo come trasmetterlo alle future generazioni, perché soltanto da noi queste generazioni possono venire a conoscenza di questi fatti.
(…) Restavamo rinchiusi ancora, ma potevamo finalmente uscire; eravamo semi-liberi, un po' liberi, potevamo perfino abitare fuori dal lager. Comprai la macchina fotografica sovietica Fed, che in realtà era una vecchia Laica tedesca fatta nella fabbrica deportata dalla Germania. Ma bisognava stare attenti a non essere scoperti, facendo le foto degli obiettivi considerati strategici dal comunismo come il ponte, l'unica centrale elettrica, i lager. Se le autorità ne fossero venute a conoscenza, allora l’accusa sarebbe stata di spionaggio e il trasgressore avrebbe rischiato la pena di morte e in ogni caso non avrebbe più lasciato quel posto. Ma l'uomo rischia sempre. Questo desiderio di testimoniare, il senso del dovere nei confronti di chi è rimasto lì senza nome, facevano superare la paura di una condanna. 

Tratto dalle memorie di mio padre
Novembre 1948 

(...) In quel periodo, nella regione di Vorkuta, nel raggio di 10 chilometri, si trovavano oltre 15 miniere legate ai lager, ma nessuno di noi sapeva cosa succedeva in quello vicino; tutto era coperto dal segreto di Stato. Dal 18 febbraio 1946 erano passati solo 2 anni, 8 mesi e 26 giorni e quante cose avevo passato, quanto avevo visto e quanto riflettuto! Durante tutto questo tempo avevo visto attorno a me tanta sofferenza umana, assistito a numerose tragedie e salutato molte persone che non avevano resistito a tanta crudeltà, soccombendo. Io stesso ebbi modo di salutare più volte la mia esistenza. Quante riflessioni suscitavano questi ricordi!
Eppure la guerra era finita... Durante la guerra c'era la speranza che l'incubo sarebbe cessato; qui invece combattevamo per sopravvivere, senza nessuna speranza per il ritorno al nostro mondo. (...)

1955
La vita, anche senza ostacoli supplementari, non era invidiabile. Il clima, l’atmosfera dominante nei lager, le angherie e la fissa monotonia delle razioni da fame provocavano la nausea. Nella mia patria e nell’Occidente, i cittadini vivevano sazi, ben vestiti, ricoperti perfino di pellicce, e si lamentavano quando durante l’inverno, per qualche giorno, la temperatura scendeva a 20 gradi sotto zero e c’era un metro di neve... Noi lì, oltre il circolo polare, nella tundra, avevamo fino a 60 gradi sotto zero per più di 9 mesi, affamati e mal vestiti in confronto alle popolazioni locali, che indossavano pelli di renna.
(…) Il fatto di uscire in semilibertà migliorava lo stato d’animo di tutti i condannati. Tanti anni esclusi dalla civiltà, dalla cultura e dalla vita sociale! Per 10 anni non avevo visto un bicchiere, un piatto, una stoviglia; tè, caffè, latte, burro e altri grassi, frutta, ortaggi, così come sapone, dentifricio e perfino il vero pane erano inesistenti. 10 anni! Adesso si poteva uscire ed andare in città, a Vorkuta, osservare la vita che scorreva diversa, ricostruendo in un certo senso la propria, respirare l’aria destinata a tutti.
Dopo 10 anni di isolamento, ognuno di noi andava incontro a una nuova quotidianità di cui aveva perduto completamente il senso. L’ambiente era ben diverso dalla società polacca dei miei ricordi. Mi sentivo come un uomo che ritornava dopo tanti anni nel suo habitat naturale, dove, durante la sua assenza, erano avvenuti grossi cambiamenti che lo facevano sentire estraneo; tutto si differenziava da ciò che era scavato negli angoli della memoria: avevo il senso di una totale spersonalizzazione.
(...) Ognuno ricordava bene i tempi precedenti la morte di Stalin. Qualcosa tuttavia era cambiato; non c’era più l’idolo da venerare ad ogni costo anche attraverso i mezzi d’informazione, secondo cui le mucche davano più latte, i maiali si ingrassavano più velocemente, la terra produceva di più e l’uomo si votava “liberamente” alla causa, dando tutto se stesso.

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