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Lorenzo Perrone (1904 - 1952)

muratore ad Auschwitz, aiutò Primo Levi a resistere nel campo di concentramento

Nato domenica 11 settembre 1904 a Fossano, cittadina del cuneese, Lorenzo Perrone era il secondogenito di una famiglia numerosa che viveva nel Burgué, il Borgo vecchio dei muratori, dei lattonieri e dei pescatori: i genitori – Giuseppe e Giovanna Tallone – vivevano di ferri vecchi e stracci, anche se i loro mestieri ufficiali erano “muratore” e “operaia”. Aveva tre fratelli, Giovanni, Michele e Secondo, e due sorelle, Giovanna e Caterina.

Non andò oltre la terza elementare e, pur battezzato, non era religioso né conosceva il Vangelo; scriveva a fatica e aveva iniziato a lavorare a dieci anni. Dopo l’ascesa del fascismo, sebbene non risulti tra gli antifascisti attivi sul territorio secondo il regime, sicuramente gli fu ostile; ma non diede nell’occhio. Nel 1924-25, a diciannove anni, fece il servizio militare, bersagliere con il 7mo Reggimento di Brescia. Poi, come molti altri muratori, divenne un frontaliero, stando spesso alla larga dall’Italia. Negli anni Trenta, a partire dal 1935 o dal 1936, andava regolarmente oltralpe – in Costa Azzurra o in altri centri abitati del sud-ovest francese – a lavorare, passando il confine anche in clandestinità con il fratello maggiore Giovanni, sui valichi del contrabbando. Entrambi bevevano molto.

A giugno del 1940, quando l’Italia fascista entrò nella seconda guerra mondiale, Lorenzo Perrone si trovava appunto oltralpe: fu una di quelle migliaia di persone – non meno di 8.500 – che vennero imprigionate, e dopo qualche giorno di galera fu liberato: a inizio luglio era già a Fossano, all’ufficio di collocamento, a chiedere un sussidio di disoccupazione. Lavorare di nuovo in Francia sarebbe stato più ostico, di lì in avanti. Ma nel 1942 arrivò un’occasione di partire, volontario, per la Polonia.

Il 17 aprile del 1942, contrattualizzato dalla ditta Beotti di Piacenza nell’ambito di un accordo italo-tedesco, giunse così ai margini di Auschwitz, dove avrebbe lavorato alla “Buna”, fondata nell’ottobre di quell’anno con l’obiettivo di produrre gomma sintetica, benzina sintetica e coloranti e altri sottoprodotti del carbone. Arrivò, per la precisione, al Campo Leonhard Haag, il Lager I dove stavano gli italiani che, a differenza dei prigionieri, mantenevano un’identità, con un documento e con una paga. È pressoché certo che non avesse alcuna idea di dove stesse andando, e cioè ad Auschwitz III, che nei documenti industriali appare semplicemente come “Auschwitz”, inizialmente pensato come un satellite di Auschwitz I e dello sterminato Auschwitz II-Birkenau. Diventato ufficialmente Auschwitz III nel dicembre del 1943 per ordine dell’Ispettorato ai campi di concentramento, l’imponente presenza degli impianti della Buna-Werke costruiti dalla I.G. Farben a novembre del 1944 avrebbe reso il Konzentrazionslager un campo di concentramento autonomo (KL Monowitz) grande quanto una città, da cui sarebbe dipesa la maggior parte dei sottocampi del complesso, che coprivano un’area di centinaia di chilometri quadrati, circa quaranta dei quali erano “area di interesse del campo”.

Nel giugno del 1944 Lorenzo Perrone incontrò uno tra gli “schiavi degli schiavi”: Primo Levi. E non ebbe esitazioni. Correndo un rischio immenso, e cioè di finire a sua volta al di là del reticolato, Perrone tutti i giorni, per sei mesi, fornì litri di zuppa supplementari a Primo Levi e al suo amico Alberto Dalla Volta.

Lorenzo Perrone a “Suiss” (così lui chiamava Auschwitz) non si limitò ad assistere i due giovani nelle loro necessità vitali e primarie, ma andò oltre. Fece tre volte da prestanome, riuscendo a far arrivare alla famiglia di Levi in Italia, tramite l’amica non ebrea Bianca Guidetti Serra, notizie; e riuscendo a far recapitare a lui una risposta e un pacco di viveri e indumenti. Dei tre fattori di salvezza su cui avrebbe insistito Levi in tutta la sua opera, vale a dire la prevaricazione, l’abilità e la fortuna, quest’ultima è dunque incarnata principalmente in Perrone, letteralmente il suo “colpo di fortuna.

E fu così che Levi, nel frattempo entrato nel laboratorio di chimica – cioè al caldo – proprio con il sopraggiungere dell’inverno, si salvò. L’ultima fortuna per lui fu di ammalarsi di scarlattina a gennaio, pochi giorni prima dell’arrivo dell’Armata Rossa, evitando per un soffio la marcia della morte nella quale perse invece la vita il suo amico Alberto. A quel punto Perrone aveva già preso la via del ritorno, dopo avergli portato un’ultima volta la zuppa, nonostante avesse un timpano perforato per via di un bombardamento. L’ultimo attestato di pagamento risulta saldato il 15 gennaio del 1945.

Arrivato in Italia, Perrone passò da Torino, per dire alla madre e alla sorella di Levi che, con ogni probabilità, il suo amico Primo non ce l’aveva fatta. Non volle niente, neanche i soldi per un biglietto del treno. Disse, anzi, che ormai era praticamente a casa; e anche gli ultimi sessanta chilometri li fece marciando. Sul destino dell’amico, però, si sbagliava.

Dopo un “itinerario labirintico” in Europa centro-orientale, che avrebbe raccontato ne La tregua, anche Levi giunse a Torino il 19 ottobre del 1945. E subito lo cercò: si incontrarono una prima volta, entrambi liberi, sicuramente entro il 3 novembre.

I due si videro spesso, nel dopoguerra. Fu in una di quelle occasioni che Levi scoprì che ad Auschwitz il suo amico di Fossano non si era occupato solo di lui, come avrebbe rivelato ne Il ritorno di Lorenzo, pubblicato nel 1981 nella raccolta Lilìt e altri racconti:

Laggiù non aveva aiutato soltanto me. Aveva altri protetti, italiani e non, ma gli era sembrato giusto non dirmelo: si è al mondo per fare del bene, non per vantarsene. A «Suiss» lui era stato un ricco, almeno rispetto a noi, e aveva potuto aiutarci, ma adesso era finito, non aveva più occasioni.

Primo Levi nel 1948 chiamò sua figlia primogenita Lisa Lorenza, in omaggio all’amico muratore. Intanto andavano insieme all’osteria, si scrivevano, ma mentre Levi iniziava a vivere, per Perrone non c’era niente da fare. Semplicemente, non voleva più stare al mondo. Beveva ancora, e molto più di prima. Si ammalò, e già in quello stesso 1948 la sua situazione era drammatica, come rivela una lettera che scrisse all’amico Primo a Natale:

Egregio Signor Dottor Primo

vengo in contracambiare la sua lettera che mi a fatto molto piacere a sentirlo che lei si ricorda ancora verso di me e soltanto io che non posso ricordarmi di lei perche quando uno e povero sara sempre povero ma questanno sono stato ricco di salute ma lei lo sa come e la mia malattia quando tocco linverno e sempre un po di bronchite e me la tengo finche moriro. mia fatto molto piacere a sentire che due mesi fa la sua Signora a avuto una bambina il piacere piu grande del regalo che lei possa farmi per me e stato quello di averli messo il nome di Lisa Lorenza cosi portera anche il mio nome ma spero ringraziando il Signore che non abbia da portare le mie sofferenze che ho portato nella mia vita.

Contrasse infine la tubercolosi, e iniziò un andirivieni di sei mesi tra ricoveri e dimissioni dall’ospedale della vicina Savigliano, finché non fu in fin di vita. Intorno alle ore 19 di mercoledì 30 aprile 1952, trafitto dal dolore di vivere e dal bisogno di non farlo più, Lorenzo Perrone, l’uomo che ad Auschwitz aveva salvato Primo Levi, morì.

Il suo corpo arrivò nel Borgo vecchio, e accorse molta gente, fra cui, in prima fila, Levi, con sua moglie e probabilmente con Lisa Lorenza. Al funerale i cinque fratelli e le due sorelle di Perrone lo osservarono in silenzio mentre deponeva i fiori sulla bara aperta dell’amico Lorenzo. Il chimico e testimone, che già aveva pubblicato Se questo è un uomo nella prima edizione De Silva del 1947 e che sarebbe diventato celebre molto più tardi, indossava un maglioncino bianco.

Sostanzialmente dimenticato per decenni nonostante Levi ne avrebbe scritto e parlato in numerose altre occasioni, e fino agli ultimi mesi della sua vita, Lorenzo Perrone, l’“uomo di poche parole” che lo salvò, sarebbe diventato Giusto tra le Nazioni quasi mezzo secolo dopo: insignito del prestigioso riconoscimento di Yad Vashem il 29 luglio del 1998, con cerimonia ad Alba, 35 chilometri da Fossano, mercoledì 3 febbraio 1999.

Il secondogenito di Primo Levi, Renzo, così chiamato nel 1957 ancora in ricordo dell’amico, in occasione del conferimento dell’onorificenza lo omaggiò così:

Nessuno più di lui ha meritato questo riconoscimento, perché a rischio della vita e con gravi danni personali ha aiutato il nostro caro e molti altri a sopravvivere. Forse avrebbe accolto questa cerimonia con il suo sorriso triste, convinto che ciò che aveva fatto era solo il suo dovere: un uomo solo e profondamente buono segnato a morte da quella terribile esperienza.

A Lorenzo Perrone è stata successivamente dedicata una targa in viale delle Alpi a Fossano, affissa nel 2004 per volontà dell’allora sindaco, Beppe Manfredi, e nel 2023 è uscita la sua biografia: Un uomo di poche parole. Storia di Lorenzo, che salvò Primo (Laterza), in corso di traduzione in diverse altre lingue.

Le parole con cui Primo Levi l’aveva ricordato in Se questo è un uomo, fin dalla prima edizione del 1947, scritta con il suo amico Lorenzo ancora vivo, risuonano ancora oggi come un inno all’umanità che, nonostante tutto, riuscì a sopravvivere. E sono una sorta di antidoto al “contagio del male” che Levi avrebbe scandagliato nel capitolo “La zona grigia” de I sommersi e i salvati:

Per quanto di senso può avere il voler precisare le cause per cui proprio la mia vita, fra migliaia di altre equivalenti, ha potuto reggere alla prova, io credo che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi; e non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avermi costantemente rammentato, con la sua presenza, con il suo modo così piano e facile di essere buono, che ancora esisteva un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa e qualcuno di ancora puro e intero, di non corrotto e non selvaggio, estraneo all'odio e alla paura; qualcosa di assai mal definibile, una remota possibilità di bene, per cui tuttavia metteva conto di conservarsi. […] Lorenzo era un uomo; la sua umanità era pura e incontaminata, egli era al di fuori di questo mondo di negazione. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo.

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Lorenzo Perrone, il muratore di Auschwitz che aiutò Primo Levi

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