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Paolo Salvatore (1899 - 1980)

il direttore del campo di Ferramonti di Tarsia

Testimonianza del Prof. Mario Rende - Perugia, 20 dicembre 2009

Paolo Salvatore nasce a Carife (AV) nel 1899. Partecipa alla prima guerra mondiale e successivamente si unisce a D’Annunzio quale legionario fiumano. Nel 1928 inizia la sua carriera nella Pubblica Sicurezza e, dopo vari incarichi, dirige come commissario la colonia di confine politico prima a Ventotene e poi a Ponza.

Durante questa sua prima esperienza di responsabile di una colonia per prigionieri politici, Salvatore non solo dimostra una grande capacità organizzativa per alleviare al massimo le condizioni dei detenuti, ma anche evidenzia grandi doti di umanità e compassione. Fra gli internati di Ponza vi era anche Giorgio Amendola che così lo ricorda nel libro Un’isola: “Quando tornai a Ponza nell’aprile del ’36 trovai un funzionario cortese che voleva ostentare la sua umana comprensione per le nostre condizioni. Egli aveva rinunciato ad imporre le costrizioni volute dai suoi predecessori. A seguito di questa sua esperienza e per le capacità dimostrate, Il Ministero degli Interni fascista lo nomina direttore del campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia (CS). Ferramonti fu il più grande campo di concentramento per ebrei e stranieri non graditi costruito appositamente a seguito delle leggi razziali del 1938. Al contrario degli altri similari posti di detenzione sparsi per l’Italia, che normalmente contenevano poche centinaia di persone, a Ferramonti soggiornarono oltre 3.000 internati, principalmente ebrei stranieri provenienti da varie parti dell’est Europa e dalla Germania. Il campo rimase in funzione poco più di tre anni: fu “inaugurato” il 20 giugno del 1940 e fu “liberato” dalla truppe inglesi la mattina del 14 settembre del 1943. L’aspetto esterno del campo ricordava quello dei campi di concentramento nazisti: era costituito da 92 capannoni situati in un perimetro di circa 160.000 metri quadri.

Il campo di Ferramonti di Tarsia
Gli internati erano sottoposti all’autorità di un direttore commissario di Polizia alle cui dipendenze vi erano alcuni agenti e un maresciallo di Polizia di Stato. Queste forze di polizia erano affiancate da un manipolo di milizia fascista. Tuttavia nulla di quello che accadde a Ferramonti potrebbe essere lontanamente assimilato ad un campo di sterminio nazista. Come scriverà nella sua relazione un ufficiale inglese, il campo di Ferramonti sembrava più un villaggio che non una struttura di sterminio. Citiamo alcuni esempi: tutti i nuclei familiari rimasero compatti e alloggiati in singole baracche; nel campo vi furono diversi matrimoni e nacquero molti bambini. C’era assoluta libertà di culto e vennero aperte delle sinagoghe e una cappella cattolica; vi era una scuola, un asilo e una biblioteca. Si organizzarono varie attività artistiche, culturali, sportive e religiose. C'erano un medico e una piccola infermeria, degli internati cinesi gestivano una lavanderia interna e fu regolarmente redatto anche un giornalino.

Molti degli internati erano validi professionisti e laureati, fra loro molti medici, pittori, musicisti che spesso potevano esercitare la loro professione sia all’interno del campo che nei paesi vicini. Ben presto nacque un'organizzazione interna democratica basata sull’elezione libera e diretta di un delegato per ogni baracca. I delegati eleggevano un “capo dei capi” e si riunivano settimanalmente in una sorta di piccolo parlamento per discutere le problematiche che di volta in volta si presentavano. Nessuno degli internati fu mai ucciso o subì violenza. Paradossalmente, un campo di concentramento per ebrei nel sud agricolo e rurale d’Italia fu in quegli anni un chiaro esempio di organizzazione democratica. Questo miracolo della tolleranza e della compassione umana fu sicuramente creato dal suo direttore Paolo Salvatore.

Il direttore Paolo Salvatore
Paolo Salvatore non fu un eroe nel senso classico e popolare del termine, cioè colui che è capace di azioni clamorose e dirompenti, ma fu piuttosto un “eroe quotidiano” che nel silenzio e nel rispetto formale del suo ruolo istituzionale riuscì a mitigare le sorti di una negativa vicenda di reclusione e a trasformarla in una attesa più umana di tempi migliori e di libertà. Con coraggio e accortezza diplomatica riuscì a fare il meglio che poteva in tempi difficili e terribili. Questo suo “meglio” significò la salvezza e la speranza per migliaia di esseri umani che lui trattò sempre come “ospiti” e mai come prigionieri. Nessuno potrà mai negare il fatto che mentre nelle stesse ore nei campi di sterminio nazisti degli ebrei venivano trucidati e trattati come mai la storia umana ha visto, nelle stesse ore a Ferramonti si vivevano sicuramente grandi trepidazioni e tristezze, ma anche si cercava di superarle. Nelle stesse ore in cui nei lager nazisti i bambini ebrei venivano separati dai genitori e avviati a morte, Salvatore scarrozzava i bambini del suo campo a bordo dell’auto di servizio fino al paese di Tarsia dove offriva loro un gelato.

Le azioni di Paolo Salvatore furono sicuramente dovute alla sua naturale indole mite, ma sarebbe un grave errore sbiadire la sua figura in un generico buonismo. Salvatore non fu solo un uomo “buono e giusto”, ma dimostrò anche forza, coraggio, carattere e un grande senso istituzionale e patriottico nel senso più genuino e vero del termine. Molti elementi del suo curriculum vitae depongono più per un carattere deciso, volitivo, ma anche equilibrato e attento per fare in modo che la vita del campo in apparenza potesse rispettare alcune regole generali di un campo di concentramento e, contemporaneamente, a fare in modo che gli internati non subissero violenza e godessero di una certa libertà e democrazia. Paolo Salvatore fu quindi, e deve essere ricordato, come un eroe della normalità quotidiana, un funzionario legato più all’onore e all’amore per la Patria che a ideologie o partiti. Il suo modo di agire significò per tutti gli internati di Ferramonti una via di speranza e di continuazione della vita in un periodo di tenebre.

L’assenza di fanatismo e di vuoto indottrinamento razziale viene confermata da tutte le testimonianze di chi l’ha visto in azione. Al contrario, si oppose con forza e fermezza ad alcuni fanatici fascisti che avrebbero voluto una ben diversa conduzione del campo. Salvatore non fu certamente un “antifascista”, ma il suo atteggiamento e modo di condurre il campo non hanno nulla a che vedere con l’ideologia razzista e antidemocratica del fascismo. Paolo Salvatore riuscì, tessendo una serie di rapporti sempre leali con gli internati, a tenere un equilibrio tra un rispetto delle apparenze e uno schietto atteggiamento antirazziale che ancora stupisce. Con mille astuzie e sotterfugi si oppose sempre ad ogni richiesta da parte dei nazisti di trasferire nei loro campi molti dei suoi ospiti. Ad esempio, un ex internato di Ferramonti, Albert Alkalay, nel suo libro The Persistence of Hope racconta un emblematico esempio di come Salvatore tentò sempre ogni mezzo per salvare dalla deportazione in Germania alcuni internati. Con la complicità del medico del campo, fece infettare di paratifo l’internato Mirko Davicio, un attivista comunista ricercato e richiesto dalla gestapo, in modo da tenerlo nell’infermeria del campo e avere una motivazione plausibile per non farlo andare via. In un altro libro scritto da un ex internato non ebreo di Ferramonti, il greco Constantinis Zotis, I am still Standing, si racconta come Salvatore, parlando con un gruppo di suoi connazionali nella baracca dei greci, disse apertamente che gli ebrei erano lì per essere protetti dai nazisti. Salvatore fu semplicemente un Uomo.

Il campo e la popolazione di Tarsia
Un altro aspetto interessante della sua personalità fu la scelta di non isolare il campo di Ferramonti dalla popolazione di Tarsia, il piccolo comune della media valle del Crati nel cui territorio è compreso Ferramonti. Nel campo erano internati numerosi professionisti che, specie per quanto riguarda l’area medica, ebbero stretti rapporti con la popolazione tarsiana. A tutte le manifestazioni culturali o sportive che si svolgevano nel campo erano presenti cittadini di Tarsia. 

Fra gli internati e i contadini locali si instaurò un utile commercio-baratto, sostanzialmente non ostacolato da Salvatore, che alleviò e migliorò le condizioni alimentari del campo. Tarsia e la sua popolazione dimostrarono una tolleranza davvero rimarchevole: matrimoni e nascite avvenute nel campo venivano regolarmente trascritte negli archivi di stato civile del Comune, in maniera paritaria come se fossero atti fra cittadini tarsiani. In considerazione di quanto avveniva in quei tempi, desta ancora stupore il fatto che gli internati ebrei deceduti venivano tranquillamente sepolti all’interno del cimitero cattolico di Tarsia. Non in zone separate fuori del cimitero, ma fra i loculi dei suoi stessi abitanti. Queste sepolture sono ancora visibili in quel cimitero a testimonianza di una tolleranza razziale e sociale che la popolazione tarsiana di allora chiaramente dimostrò. Un esempio ancora oggi raro da trovare. Una tolleranza che indubbiamente Paolo Salvatore contribuì a sviluppare e a mantenere.

Paolo Salvatore
Come spesso accade nella storia di questi “eroi quotidiani”, Paolo Salvatore non ebbe mai riconoscimenti per quello che seppe fare a Ferramonti, nessuna onorificenza, nessuna strada a lui intitolata: l’Italia se ne è semplicemente dimenticata. Non se lo sono dimenticato però chi l’ha potuto conoscere e ne ha potuto lasciare testimonianza. Averoff-Tossizza, una delle più importanti figure politiche della Grecia moderna e più volte ministro, fu internato a Ferramonti ed ebbe con Salvatore rapporti più che cordiali. In occasione della traduzione italiana di un suo libro riguardante la sua esperienza di prigioniero in Italia e a Ferramonti, rintracciò Paolo Salvatore e gli regalò una copia del libro con una dedica più che significativa, dove definisce Salvatore un uomo “che ha saputo, in giorni neri, onorare il nome dell’Italia”. Non mi sembra che ci siano molti casi in cui un “prigioniero” stigmatizza così il proprio “carceriere”.

L’episodio che ha determinato l’allontanamento di Salvatore dal campo poco prima della sua liberazione da parte degli alleati inglesi rimane emblematico e affascinante: il direttore di un campo di concentramento per ebrei che viene alle mani con un milite fascista reo di aver ingiustamente dato un pugno a un internato ebreo!

In conclusione, Paolo Salvatore deve essere annoverato fra i tanti giusti che in tempi terribili riuscirono, non per vago buonismo, ma con coraggiose scelte personali a cambiare in positivo il destino di migliaia di uomini. Le scelte di Salvatore trasformarono il più grande campo di concentramento dell’Italia fascista in un luogo che lo storico ebreo dell’Università di Cambridge, il Professor Jonathan Steinberg, ha definito il “più grande kibbutz del continente europeo” e che lo stesso Jerusalem Post, in un articolo dedicato a Ferramonti, lo descrive come “un paradiso inaspettato". Un esempio unico e luminoso in tutta la tragica e dolorosa storia della Shoah.


Albert Alkalay, The Persistence of Hope Rosemont Publishing, Danver, 2007
Giorgio Amendola, Un'isola, Rizzoli, Milano, 1980
Carlo Spartaco Capogreco, Ferramonti. La vita e gli uomini del più grande campo d'internamento fascista, 1940-1945, Giuntina, Firenze, 1987
Mario Rende, Ferramonti di Tarsia. Voci da un campo di concentramento fascista, Mursia, Milano 2009
Costantin Zotis, I'm still standing, 1stBookLibrary, 2001

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