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I testimoni inascoltati

editoriale di Gabriele Nissim

Studenti al Giardino dei Giusti di Milano (Foto di Gariwo)

Studenti al Giardino dei Giusti di Milano (Foto di Gariwo)

Mentre si discute in Italia e nel mondo sui mezzi che la comunità internazionale può utilizzare per arrestare un massacro di massa, l’Associazione per il Giardino dei giusti di Milano si appresta a onorare il 7 aprile al Monte Stella con una grande cerimonia pubblica i testimoni inascoltati dei genocidi e dei crimini contro l’umanità del Novecento: Armin Wegner, Jan Karski, Alexandr Solženicyn, Romeo Dallaire, Sophie Scholl.
Sono tutte figure che si appellarono ai grandi della terra per arrestare il corso degli eventi e alcuni di loro caddero in una profonda depressione di fronte alle ipocrisie e agli opportunismi degli Stati. Avevano compreso che c’era comunque una possibilità per bloccare la mano dei carnefici e si scontrarono con gli stessi alibi che si sentono ancora oggi tra gli scettici dell’operazione militare contro la Libia di Gheddafi: venire in soccorso dei perseguitati è sempre controproducente e pericoloso, meglio dunque rimanere inermi per non complicare la situazione.
Lo scrittore tedesco Armin Wegner, scomparso a Roma nel 1978 nell’indifferenza dei suoi connazionali, si prodigò con tutte le sue forze per documentare il genocidio armeno, scattando centinaia di fotografie sui luoghi della tragedia e raccogliendo le testimonianze dei sopravvissuti.
Il 23 febbraio 1919 scrisse al Presidente americano Woodrow Wilson per chiedere che la comunità internazionale venisse in soccorso del popolo armeno: “Come uno dei pochi europei che ha assistito a quegli eventi oso attribuirmi il diritto di portare alla sua attenzione quelle immagini di miseria e di terrore e le chiedo di intervenire per chiedere di riparare ai torti subiti da quel popolo.” “È in gioco, cercò invano di spiegargli, la dignità dei Paesi democratici”. Se non si fosse fatto nulla si sarebbe persa la reputazione morale. Parole non raccolte da nessuno, ancora oggi rimangono aperte le ferite di quel genocidio rimosso. Ritornato in Germania Armin Wegner fu uno dei primi intellettuali a intuire nel 1933 il possibile esito delle campagne antisemite. Le denunciò pubblicamente in una lettera memorabile che scrisse a Hitler. L’indifferenza internazionale verso gli armeni aveva aperto la strada alla soluzione finale.

Jan Karski era invece l’emissario della resistenza polacca che nel 1942 entrò clandestinamente nel ghetto di Varsavia e raccolse gli appelli dei dirigenti ebraici che gli chiedevano disperati di informare il mondo. “Non è sufficiente aspettare una vittoria militare contro la Germania, ma bisogna agire subito bombardando le città tedesche fino a quando i nazisti non rinunciano ai loro piani criminali. Dopo per noi ebrei polacchi sarà troppo tardi.”
Con queste terribili informazioni Jan Karski partì in missione diplomatica in Inghilterra e negli Stati Uniti dove si incontrò con il Ministro degli Esteri britannico Anthony Eden, con il Presidente americano Roosevelt e con importanti esponenti dell’amministrazione. Ogni incontro fu per lui una cocente delusione. Facevano finta di non credergli e accampavano mille scuse per spiegargli che non c’era la possibilità di intervenire. A nulla servì il suo tentativo di convincerli a bombardare i campi di sterminio.
Per tutta la vita considerò il suo insuccesso personale come il fallimento dell’umanità intera e in una conferenza del 1982 descrisse l’indifferenza alla Shoah come il secondo peccato originale dell’uomo. “Dio mi ha dato il compito di parlare e di scrivere durante la guerra, quando c’erano le possibilità di aiutare. Ma io non ci sono riuscito. Dopo la fine della guerra ho appreso con sgomento che i governi, i responsabili politici, gli studiosi, gli scrittori non sapevano cosa stava accadendo agli ebrei. Sono stati colti di sorpresa. L’assassinio degli ebrei era un segreto...
Sebbene io non sia un eretico, la mia fede mi dice che l’umanità ha commesso un secondo peccato originale con le sue azioni, con l’omissione di soccorso, con l’indifferenza, con l’insensibilità, con l’egoismo, con l’ipocrisia e una fredda razionalizzazione.
Questo peccato perseguiterà l’umanità fino alla fine dei tempi. Questo peccato mi perseguita.”. La stessa impotenza di fronte alla sordità delle istituzioni internazionali la visse a Kigali nel 1994 Romeo Dallaire, il comandante dei Caschi Blu dell’Onu, la cui missione doveva servire a preservare un accordo di pace tra le due componenti ruandesi. Resosi conto che una fazione degli Hutu stava per pianificare un genocidio nei confronti dell’intera popolazione Tutsi chiese invano alle Nazioni Unite di rafforzare il suo contingente con l’invio di mezzi militari e di tremila uomini. Per mesi era riuscito a far credere ai carnefici Hutu che di fronte alla volontà internazionale non avrebbero potuto attuare i loro piani e invece non solo gli aiuti non arrivarono mai, ma dopo l’assassinio di dieci soldati belgi il suo contingente venne persino dimezzato.
Cosi al ritiro dei soldati dell’Onu le migliaia di civili Tutsi che avevano cercato la protezione del contingente internazionale furono massacrati e nelle settimane successive il regime genocida annientò 800 mila persone. Quando rientrò in Canada, dopo la fine della fallita missione, ebbe il coraggio di denunciare pubblicamente gli ufficiali superiori dell’Onu e gli stati membri che avrebbero potuto agire e invece mostrarono la loro viltà di fronte ad un genocidio che si poteva evitare con pochi mezzi.
Il trauma per il suo fallimento fu però così grande che nel 2000 tentò persino il suicidio perché avvertiva un rimorso di coscienza, a differenza dei veri responsabili del mancato soccorso che continuarono a giustificare il loro miope comportamento. Alexandr Solženicyn, uno degli onorati a Milano per la sua denuncia dei gulag, quando fu espulso dall’Urss in un discorso pronunciato all’università di Harvard nel 1978, dove denunciò l’arrendevolezza dell’Occidente nei confronti del totalitarismo sovietico, colse precisamente il problema che affliggeva le democrazie occidentali.
La malattia che inquinava chi stava a guardare senza reagire, dai governi all’0rganizzazione delle Nazioni Unite, era la perdita del coraggio civile. “C’è bisogno di ricordare, disse tra lo stupore dei presenti, che il declino del coraggio è stato sempre considerato, sin dai tempi antichi, il segno precorritore della fine?”
Il motivo è molto semplice, come osservò il filosofo Jan Patočka, poco prima di morire il 13 maggio 1977, per un attacco cardiaco dopo le percosse subite in un interrogatorio della polizia comunista a Praga. Il coraggio viene meno quando si perde di vista che ci sono situazioni in cui per difendere dei valori fondamentali vale la pena di soffrire, perché le cose per cui eventualmente si soffre sono quelle per cui vale la pena di vivere.
Fu questo lo spirito che mosse a Monaco di Baviera la giovane studentessa della Rosa Bianca che non esitò a sacrificarsi nel 1943 per accendere la coscienza del popolo tedesco.
Oggi sono troppi in Europa e nel nostro Paese che quando discutono della Libia e dei rischi dell’intervento si dimenticano di dire che prima del petrolio, dell’emigrazione clandestina, dell’incertezza per il futuro della regione, ciò che è in gioco è la difesa dei perseguitati e dei valori fondamentali dell’uomo.
Ce lo hanno insegnato i testimoni inascoltati dei genocidi del Novecento.

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