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11 settembre 2001

I Giusti delle Torri gemelle

Il memoriale delle Torri Gemelle (Foto per gentile concessione di Maria Teresa Cometto)

Il memoriale delle Torri Gemelle (Foto per gentile concessione di Maria Teresa Cometto)

È domenica pomeriggio e sono qui, al 9/11 Memorial, sotto un cielo blu terso come lo era dieci anni fa, la mattina che le Torri Gemelle sono state abbattute dall’odio dei fanatici islamici. Fisso le due vasche che hanno sostituito le loro fondamenta e mi sento risucchiare nel vortice d’acqua che va giù giù, nel fondo delle gigantesche fontane. Le cascate che scendono in due balze fanno molto rumore e distraggono dal caos della città intorno e dei cantieri da cui stanno sorgendo i nuovi grattacieli. Penso alle tante lacrime versate e al dolore sofferto dai parenti delle 2.983 persone uccise dagli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 e del 26 febbraio 1993, che qui sono ricordate. Accarezzo i loro nomi, incisi uno per uno nei pannelli di bronzo che coronano le due vasche. Mani pietose – quelle di una madre o di una fidanzata, magari di un figlio o di un fratello? – hanno infilato nelle lettere incise qualche bandierina a stelle e strisce e molti fiori: rose, garofani, anche dei girasoli. Piccoli gesti d’amore, che alleviano un poco l’atmosfera funebre del memoriale. Non dimenticare Gli americani sono bravi nel culto della memoria. Riescono a trasformare anche i momenti più drammatici della loro storia in occasioni per celebrare l’aspetto positivo emergente dalle tragedie. Lo capisci quando vai a visitare posti come Gettysburgh, il campo della battaglia più sanguinosa della guerra civile con quasi 8 mila morti e 30 mila feriti, e nel cimitero militare leggi il discorso di Abramo Lincoln sulla “nascita di una nuova libertà” da quel macello. O quando vai al memoriale di Washington per i caduti in Vietman, dove i nomi sono ben 58.175 e ti chiedi come il Paese abbia saputo superare quel trauma, ridando l’onore ai soldati morti in una guerra così controversa.Quando le torri sono crollate...A tener viva la memoria di 9/11 ci sono tanti volontari che aiutano i visitatori a capire l’enormità di quell’evento: sono sopravvissuti o soccorritori o parenti delle vittime. Tutti testimoni di quell’esplosione di male, ma anche dei tanti episodi di bontà che ne sono scaturiti, grandi e piccoli. Molto si è detto, giustamente, degli eroi come i pompieri e i poliziotti che quel giorno sono corsi nelle Torri e sono morti per salvare gli altri. Ma ci sono stati molti altri cittadini che in quel frangente drammatico invece di pensare solo a se stessi, o ai propri cari più vicini, hanno fatto qualcosa di inatteso e di buono.

Non mi aspettavo di vedere la gente aiutarsi mentre tutti correvamo, come un fiume in piena, sulla West End Avenue per scappare verso Nord dopo il crollo della prima torre l’11 settembre 2001. Io ero mano nella mano con mia figlia Francesca e mio marito Glauco, e pensavo solo a dove potevamo metterci in salvo. Quando è crollata anche la seconda torre, “il fiume di gente in fuga si è fermato in un silenzio agghiacciante, tutti gli occhi puntati a Sud, dove una volta le torri erano un punto di riferimento sicuro e ora c’era solo un vuoto pieno di fumo e di polvere. Eppure nessuno si è lasciato andare all’isteria”, ho raccontato sul Corriere della Sera del giorno dopo. Sono immagini ancora fresche oggi nella mia memoria: “Ho visto molti piangere. Ma ho visto anche genitori – alla scuola di mia figlia – offrirsi volontari per evacuare l’edificio; e persone fermarsi per strada ad aiutare i vecchi o gli zoppicanti ad allontanarsi più velocemente. Nessuno a spintonarsi o a tagliar la strada. Davanti alle cabine dei telefoni pubblici che funzionavano, lunghe file di persone ad aspettare il proprio turno, perché i cellulari non prendevano più”. Nessuno a pretendere di passar davanti per chiamare casa e dire “sono vivo, non preoccupatevi”.

 Arthur Moossmann: ha messo in salvo i suoi colleghi  Arthur Moossmann, Art per gli amici, non è riuscito a raggiungere la famiglia fino a mezzanotte di quell’11 settembre, quando è arrivato a Long Island e ha potuto riabbracciare la moglie e i due figli di quattro e sette anni, rimasti in ansia per tutta la giornata. L’ho intervistato in occasione del decimo anniversario e sono rimasta colpita dalla sua scelta di nascondere fino ad ora la sua impresa eroica, che salvò la vita ai 300 colleghi della compagnia assicurativa Fireman’s Fund (Allianz) di cui era il capo. Art mi ha raccontato di come, seguendo il suo istinto, aveva preso la decisione di far evacuare i suoi uffici al 47° e 48° piano della Torre Sud appena dopo l’impatto del primo aereo nella Torre Nord, contro gli ordini dei pompieri e della Port Authority che invece raccomandavano di non muoversi. Una scelta molto difficile la sua e coraggiosa: si è assunto una grande responsabilità, l’ha portata fino in fondo – andandosene per ultimo, dopo aver controllato che tutti i colleghi avessero cominciato a scendere le scale (molti riluttanti a farsi quasi 50 piani a piedi!) – e poi non si è mai vantato di aver fatto la cosa giusta. 

Grazie a lui i piani 47° e 48° della Torre Sud sono stati i piani più alti ad aver avuto il 100% di sopravvissuti: “Ricevo ancora cartoline (dai colleghi di allora) e dai loro familiari per ringraziarmi di averli salvati - mi ha detto Art, oggi 55enne -. È la mia maggior soddisfazione”. Solo per la mia ostinata insistenza a intervistarlo e per l’intercessione di un comune amico ha accettato alla fine di parlare di sé, con molta umiltà e uno spirito positivo rivolto solo al futuro, quello che lo ha aiutato a superare il trauma di 9/11. Che cosa ha provato alla notizia dell’uccisione di Osama bin Laden?, gli ho chiesto alla fine dell’intervista. Così ha risposto: “Non mi piace festeggiare la morte di nessuno. Tuttavia il mondo è un posto difficile e ci sono persone orribili. Suppongo che il giorno della scomparsa di bin Laden per molti sia stato la chiusura di una fase, per altri l’inizio di una nuova. Per me solo un altro giorno”. Il male c’è, ma si può combatterlo senza abbassarsi allo stesso livello dei cattivi. La resistenza al terrorismo comincia con gli individui come Art e con la loro umanità.

"Gli americani vogliono farti sapere che ti sono vicini"  “Gli americani vogliono farti sapere che ti vogliono bene e che ti sono vicini”. Mi commuovo ancora oggi ricordando quella frase che mi ha detto una volontaria della Croce Rossa, una settimana dopo 9/11, nella portineria del palazzo dove avevo abitato fino al crollo delle Twin Towers e che, danneggiato dall’attacco terroristico, è rimasto poi inabitabile fino a Natale. Era un complesso con centinaia di famiglie e la Croce Rossa si era installata al piano terra per offrire il proprio aiuto, sia pratico sia morale, agli inquilini che ci andavano a recuperare gli effetti personali e a controllare lo stato dei loro appartamenti. A ogni famiglia la Croce Rossa consegnava un assegno di 200 dollari per fare la spesa nel vicino supermercato. “Meglio lasciarlo a chi ne ha più bisogno”, ho detto cercando di rifiutarlo. Ma la volontaria che me lo porgeva – una donna di mezza età, venuta da lontano apposta a New York per questa missione di solidarietà - mi ha guardato negli occhi e mi ha spiegato che la cifra non contava, l’importante era il messaggio, il non farci sentire soli. Poi mi ha abbracciato e, sapendo che avevo una figlia di otto anni, mi ha dato un orsacchiotto di peluche: sta sempre sul letto di Francesca, un altro modo per non dimenticare quante buone azioni la gente comune ha saputo fare a favore di perfetti sconosciuti. 

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