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Il 'falsario del bene'

storia di Adolfo Kaminsky

Sarah Kaminsky è nata nel 1979 a Sidi M’hamed, in Algeria, e vive in Francia da quando aveva tre anni. È attrice di professione e autrice di sceneggiature. La sua particolare bellezza ­ pelle ambrata, occhi color smeraldo e riccioli scuri ­ è frutto di un matrimonio misto. Sua madre Leïla, una Tuareg dell’Algeria del Sud, è figlia di un Imam progressista che ha studiato diritto all’Università di Algeri, si è battuta per la decolonizzazione dell’Africa e si è interessata all’arte contemporanea e alla fotografia. Il padre, Adolfo Kaminsky, un ebreo ashkenazita di origini russe-ucraino-georgiane, è un «maestro di strada» che aiuta i giovani malfattori a reinserirsi trovando loro un lavoro e insegnando fotografia.

Almeno questo è quello che per molti anni ha creduto la figlia Sarah. Fino a quando, tra un sospetto e l’altro, ha scoperto un articolo di giornale che titolava: «L’ex falsario si rifà una verginità». E ancora: «Un vecchio falsario vigila oggi sulla moralità dei giovani… Ex sostenitore degli Algerini del FLN contro la Francia, si occupa del reinserimento dei nostri giovani delinquenti magrebini».

Un falsario? E chi lo avrebbe mai immaginato, pensò Sara incredula, decidendo di indagare sul passato di questo padre enigmatico e misterioso. Ne parlò con lui, chiese spiegazioni e la sua collaborazione. Di fronte a lei non c’era più soltanto l’adorato genitore dall’aria mite tanto più anziano di lei (lui 86 anni, lei 32), bensì un uomo coraggioso che aveva dedicato la propria esistenza al servizio delle nobili cause.

«Ricordo di aver visto delle lettere - osserva Sarah rivolgendosi al padre -. Una in particolare destò il mio interesse. Ti erano molto grati per il tuo lavoro di spionaggio e nel controspionaggio dell’esercito francese nel 1945. “Mio padre un agente segreto”, mi dissi. Così, secondo i punti di vista, sentivo parlare di falsario, partigiano, eroe, traditore, agente segreto, fuorilegge, Mudjaid…».

La giovane si buttò a capofitto per ricostruire questa storia «di clandestinità, di passione e azione politica, di ansia e di paura». Parlò a lungo con il padre, rintracciò i suoi vecchi amici ancora vivi, spulciò numerosi archivi, raccolse documenti e testimonianze. Da tutto questo lavoro è nato il libro Adolfo Kaminsky. Una vita da falsario (Angelo Colla Editore,  trad. Giuliano Corà,  pagg. 224, € 18).

Commenta Sarah nel prologo: «La morte, il tempo, mi indicavano le ragioni per le quali dovevo scrivere questo libro, e in fretta. Prima che fosse troppo tardi. Prima che lui si spegnesse, con i suoi segreti, con la sua storia, affinché gli enigmi della sua vita non rimanessero senza risposta».

Ma chi è Adolfo Kaminsky, l’uomo dalla doppia, tripla e forse quadrupla  vita? La sua storia parte da lontano ed è simile a quella della maggior parte degli ebrei nell’Europa dell’Est del secolo scorso: una storia di fughe, violenze, partenze repentine, ripetuti esili, spesso dettati dalla costrizione.
I genitori di Adolfo, entrambi russi ebrei, si erano conosciuti a Parigi nel 1916. Sua madre era sfuggita ai pogrom e il padre, simpatizzante marxista e giornalista per il giornale del Bund, fu costretto all’esilio in Francia. Quando i bolscevichi presero il potere in Russia, il governo francese ordinò l’immediata espulsione di tutti i russi ritenuti dei «rossi». Fu così che la coppia emigrò in Argentina dove nacquero Adolfo e i suoi fratelli. In seguito, i Kaminsky, ormai di nazionalità argentina, ritornarono in Europa, prima a Parigi e poi in Normandia presso uno zio. Gli avvenimenti del 1938, l’annessione dell’Austria da parte della Germania e le voci sulla caccia agli ebrei che annunciavano l’imminenza della guerra, accelerarono i ricongiungimenti. Adolfo iniziò a lavorare non ancora quattordicenne con in tasca il solo diploma elementare: prima dallo zio, poi presso una fabbrica di cruscotti d’aereo e infine rispose a un’offerta per diventare apprendista tintore. Tra smacchiatori, colori e tinture, si appassionò alle formule e ai processi chimici, mentre la sera, di nascosto, faceva i suoi esperimenti dove imparò e perfezionò l’arte della contraffazione. Ben presto si interessò alla decolorazione degli inchiostri. Oggi racconta: «Avevo trovato la mia strada».

Il giovane economizzò i suoi salari e mise in piedi un piccolo laboratorio. Nel frattempo c’erano state le prime leggi di Vichy. Gli ebrei non avevano più diritto di possedere un conto corrente postale, né un libretto di risparmio. La vita iniziava ad essere dura, non si trovavano i beni di prima necessità e i rifornimenti erano sempre più difficili. Grazie al suo laboratorio chimico, il giovane era ormai in grado di fabbricare e distribuire gratuitamente del lucido da scarpe, del sapone col carbonato di sodio e delle candele di paraffina molto utili per le frequenti interruzioni di corrente. Intanto sua madre era morta in circostanze misteriose, forse assassinata, mentre il resto dei Kaminsky fu costretto a lasciare la casa, requisita dall’amministrazione militare tedesca. Da quel giorno, oltre al sapone, alle candele e al sale, Adolfo si mise a fabbricare prodotti più pericolosi per corrodere le linee telegrafiche e telefoniche e far arrugginire i binari, e anche piccoli detonatori. «Partecipando ai sabotaggi - ricorda oggi -,  per la prima volta non  mi sentivo più del tutto impotente di fronte alla morte di mia madre. Avevo per lo meno la sensazione di vendicarla. E mi sentivo orgoglioso. Ero nella Resistenza».

Poco dopo i tedeschi lo arrestarono insieme al fratello minore mentre si trovavano in tintoria. Li fecero salire su un camion dove avevano riunito il resto della famiglia. Meta di destinazione Drancy, il più importante campo di transito per ebrei catturati sul suolo francese (zona occupata e amministrazione di Vichy). Qui, rinchiusi in un blocco di cemento lugubre circondato da filo spinato, in meno di quattro anni vi passarono 70.000 ebrei di molte nazionalità; 67.000 di essi vennero deportati, nella stragrande maggioranza, ad Auschwitz. «Campi di lavoro», dicevano i tedeschi.

I Kaminsky si salvarono grazie alle lettere scritte all’ultimo momento dal fratello di Adolfo, Paul. Erano tutte uguali, con i loro nomi, la data e la destinazione e chiedevano che l’Argentina reclamasse la loro liberazione. Dopo tre mesi di reclusione, Adolfo si ritrovò in una Parigi sempre più feroce e antisemita, in più  devastato dai sensi di colpa per essersi salvato. «A Drancy ho scoperto gli ebrei e la loro diversità, li ho amati, mi sono amato attraverso di loro, mi sono sentito ebreo, e questa identità non mi ha più abbandonato». Un’appartenenza che tuttavia non lo convinse ad emigrare in Israele: «Avevo immaginato un Paese laico, non sopportavo che il nuovo Stato scegliesse di fondarsi sulla religione e l’individualismo».

A Parigi Adolfo non portava la stella gialla, ma sui suoi documenti parlavano da soli. Non poteva andare in albergo, né tornare in Normandia né comprarsi da mangiare. Tutto era vietato agli ebrei, si trattava di una libertà illusoria. Dopo varie peripezie, tra un arresto e un rilascio, le circostanze lo portarono a fabbricare la sua prima carta di identità. Fu l’inizio della sua lunga vita da falsario di documenti, il più geniale, acuto e finora sconosciuto del Novecento. Adolfo mise il suo talento a disposizione delle più nobili cause: dagli ebrei sotto il nazismo all’emigrazione clandestina verso Israele dei superstiti dei campi di concentramento; dal sostegno al FLN nella Guerra di Indipendenza algerina alle lotte rivoluzionarie nell’America Latina fino all’opposizione alle dittature di Franco, di Salazar e dei Colonnelli greci. Non ultime le guerre di decolonizzazione in Africa. Costruì identità fittizie a coloro che si trovavano in difficoltà, pezzi di carta preziosissimi per scappare dalla violenza, dai soprusi, dalle guerre e dalle ingiustizie. Per mantenersi faceva il fotografo perché la fabbricazione di documenti falsi non l’hanno certo arricchito. Ai soldi poi non aveva mai dato troppo peso. «Quello che mi premeva era la libera circolazione dei popoli - racconta oggi Adolfo alla figlia -, forse per via dell’infanzia che ho avuto, o della mia eredità familiare, degli anni di esilio che i miei genitori avevano subito… In quelle occasioni compresi veramente il significato del termine “documento”, questo pezzo di carta che, per una famiglia come la mia, errabonda da un esilio all’altro per decenni, si rivelava particolarmente difficile da ottenere».

I documenti di questo «falsario del bene» hanno salvato numerosissime vite, bambini, donne, uomini e anziani. Giorni e notti trascorsi a lavorare nei laboratori improvvisati, clandestini, nascosti o semiufficiali (da una parte l’attività pubblica di fotografo, dall’altra quella segreta di falsario): in solitudine, immerso nell’oscurità a miscelare inchiostri, contraffare, copiare, cancellare, schiarire e scurire, un lavoro certosino di altissima precisione. Con gli occhi che bruciavano e la tensione a mille, sempre con un nodo in gola e la paura di essere scoperto. Solo pochissimi complici fidati erano al corrente, e chissà se poi tutti erano davvero leali in tempi di doppi giochi, spie, agenti segreti camuffati. Neppure i famigliari dovevano sapere, un solo sbaglio avrebbe potuto costargli la vita, quella degli altri  e mettere a repentaglio tutto il lavoro. «Se avevo paura? Sì, all’epoca ne avevo, ero stato minacciato anche se non avevo fatto nulla. A quel punto decisi che era meglio agire. Il rischio era alto ma valeva la pena rischiare per qualcosa di ancora più importante. Non sono un eroe, ma non avrei mai sopportato di rimanere inerte di fronte alle persone in pericolo».

Adolfo racconta di quella volta in cui i nazisti avevano preparato una gigantesca retata che prevedeva lo svuotamento simultaneo entro tre giorni di alcuni istituti per bambini, oltre trecento: «Restare sveglio, il più a lungo possibile. Lottare contro il sonno. Il conto è presto fatto. In un’ora io fabbrico trenta documenti falsi. Se dormo un’ora, muoiono trenta persone. Dopo due notti di lavoro, un lavoro minuzioso e interminabile, l’occhio appiccicato al microscopio, il mio peggior nemico è la fatica. Trattenere il respiro perché la mano non tremi. Fabbricare documenti falsi è un lavoro meticoloso, un vero lavoro di orefice. Più di ogni altra cosa quello che mi fa paura è l’errore tecnico, un dettaglio minimo che possa essermi sfuggito. Un solo secondo di distrazione può rivelarsi fatale, e da ogni documento dipendono la vita o la morte di un essere umano». 

Questo e molto di più è Adolfo Kaminsky, il «Falsario del Bene», un Giusto tra i Giusti dei nostri tempi. Oggi è un signore anziano con la barba bianca, un sorriso limpido e puro e lo sguardo affaticato; un sorriso e uno sguardo che hanno fatto girare la testa a molte donne bellissime e di spessore. Ma questo è un altro dei molti capitoli della sua vita straordinaria che meriterebbe un libro a parte. Non a caso, diversi produttori si sono fatti avanti per accaparrarsi i diritti per un film.  Conclude Kaminsky: «Ho deciso di raccontare la mia storia perché ritengo sia importante che i giovani diventino coscienti che si può fare qualcosa. Anche nelle situazioni più disperate».
      

Marina Gersony per East, rivista europea di geopolitica

Analisi di

31 luglio 2012

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