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Arendt, il papa e una cameriera

Paola Bigatto descrive il suo spettacolo

Paola Bigatto

Paola Bigatto

“Signora, questo papa era un vero cristiano. Come è potuto accadere che un vero cristiano sedesse sul trono di san Pietro? Nessuno si era accorto di chi egli realmente fosse?” Il papa in questione è papa Giovanni, e la signora a cui sono state rivolte queste domande è Hannah Arendt, in gita a Roma proprio alla fine di maggio del 1963, mentre papa Roncalli stava morendo, in Vaticano. Autrice della fulminante battuta, una cameriera romana, probabilmente quella dell’albergo dove Arendt e il marito Blücher alloggiavano, e probabilmente inconsapevole della portata della sua domanda, e di come Arendt non solo la citerà all’inizio di un suo saggio, ma ne farà la guida di tutta la sua argomentazione sulle relazioni tra il papa buono e la Chiesa, alla ricerca del segreto del bene.

Finalmente il bene! Dopo tanti anni di lavoro su La banalità del male, Arendt si trova a tu per tu con il papa buono; e io stessa, dopo questi ultimi dieci anni in cui mi sono occupata de La banalità del male, dopo aver studiato la vita di efferati nazisti, essermi infilata nei meandri di pensiero più spaventosi, mi sono avvicinata,  attraverso Arendt, alla figura di papa Roncalli. Ciò è stato rigenerante, ma altrettanto, e forse più, vertiginoso dell’affrontare il male. Il saggio Angelo Giuseppe  Roncalli, un cristiano sul trono di San Pietro dal 1968 al 1963 è contenuto nel volume Men in Dark Times, ma si tratta in realtà di una recensione uscita sulla rivista The New York Review of Books nel 1965, recensione dell’edizione in lingua inglese de Il giornale dell’anima di Roncalli, i diari spirituali che egli redasse dalla prima giovinezza alla morte.

Perché fare di questo breve saggio una messinscena? Perché mi interessava usare il mezzo teatrale per far emergere i pensieri sotterranei che permeano il saggio: solo lo spazio teatrale dà la possibilità di una polifonia di voci che rendano conto di allusioni, citazioni, connessioni di pensiero che sono latenti nel testo. Per esempio: Arendt fa solo un piccolo e fugace  riferimento alle parole del Grande Inquisitore dostoevskiano, ma ritorna ancora a citare I fratelli Karamazov a proposito delle somiglianze tra il giovane Angelo e il giovane Alëša. In realtà questi due personaggi dostoevskiani costituiscono quasi i due pilastri nel saggio di Arendt, che è centrato in gran parte su un problema: come rendere fattuale, attiva nelle azioni la sequela Christi, tanto predicata dalla Chiesa, e così osteggiata spesso dalla Chiesa stessa?

Ma non si pensi che il saggio di Arendt sia solo una rimarcatura della incoerenza tra la Chiesa come istituzione e la Chiesa di Gesù. Certo, questo aspetto è molto presente, ma senza note polemiche, semplicemente con lo stupore di osservare la eccezionalità di papa Giovanni, che riesce a  diventare papa, quindi il capo di una delle più grandi istituzioni del mondo, sulla base di una ricerca personale di purezza e di umiltà. Umiltà: questa è un’altra delle parole forti che emergono dallo sguardo di Arendt sul papa, un’umiltà che la filosofa vede strettamente legata alla libertà di giudizio –tema che le è caro.  Così come il tema dell’obbedienza -altro tema caro alla sua riflessione - sembra da lei osservato in un’altra prospettiva, alla luce della vita di Roncalli: se Arendt sostiene, sulla scorta della sua osservazione della vita sotto i regimi totalitari, la necessità di abolire la parola obbedienza dal vocabolario morale e politico delle persone adulte (la figura di Eichmann aleggia in queste parole), distingue però nella strettissima obbedienza di Roncalli ai suoi superiori la natura più profonda della sua fede, e osserva stupita, alla  fine del suo saggio, “l’enorme orgoglio e la fiducia in se stesso di quest’uomo che mai, neanche per un attimo, rinunciò alla sua indipendenza di giudizio quando obbediva a ciò che per lui non era la volontà dei suoi superiori, ma la volontà di Dio.”

Se, come credo, uno spettacolo dovrebbe far nascere delle domande, e non fornire delle risposte, mi piace terminare con una riflessione di Arendt che ha suscitato domande e interrogativi, alla fine dello spettacolo, il 31 agosto, al santuario della Cornabusa: sulla scorta delle citazioni del papa, Arendt segnala come sia fondamentale, per non incorrere nell’attuazione del male, non compromettersi in alcun modo con esso. In altra sede, a tal proposito, aveva segnalato come siano proprio i buoni, spesso, a compiere i mali peggiori, perché sedotti dalla possibilità di un bene futuro o maggiore, mentre il Talmud dichiara:  “Se vi si chiede di sacrificare un uomo per il bene della comunità, non lo consegnate. Se vi si chiede di consegnare una donna da disonorare per la salvezza di altre donne, non lasciate che sia disonorata”. Cosa possiamo intendere per “non compromissione col male”? Possiamo forse definire “compromissione col male” la diplomazia, il compromesso, la conciliazione? Il papa stesso, per salvare gli ebrei che transitavano dal Bosforo, non ha forse avuto a che fare con il nazista von Papen? E come mai si ha la sensazione che anche in quei rapporti effettivamente egli non si sia “compromesso col male”? Ma allora torniamo alla domanda: cosa vuole dire compromettersi col male? A quale attenzione alla nostra vita interiore siamo chiamati?

"Il giornale dell’anima - Arendt legge Roncalli" di Paola Bigatto e Lisa Capaccioli, con Paola Bigatto, Eliseo Cannone, Lisa Capaccioli, è uno spettacolo teatrale ideato in occasione dei cinquant'anni dalla morte di Giovanni XXIII, andato in scena al santuario della Cornamusa (BG) il 31 agosto 2013 per il Festival Desidera.

1 ottobre 2013

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